
Dove apprendere la libertà? La filosofia e la letteratura hanno variamente risposto a questa domanda: Kant inferiva la sua esistenza come postulato del dovere morale che, svincolando l’uomo dalla sua natura fenomenica, apriva un problematico pertugio verso la “cosa in sé”. Quel varco che era precluso dalla perentoria dichiarazione della non scientificità della metafisica, tornava a dischiudersi in due direzioni. Dal punto di vista etico nella libertà quale postulato necessario della legge morale; da quello metafisico non già alla stregua di una conoscenza, ma come desiderio di una giustizia finalmente piena, in cui alla virtù corrispondesse il merito e di un “regno dei fini” sussunto in un “Dio” accessibile alla ragione umana. Poiché nel mondo degli esseri finiti quali noi siamo, argomentava l’autore della ”Critica della Ragion pratica”, non si offre una perfetta coincidenza tra virtù e felicità, occorre postulare l’esistenza di un “regno” in cui tale coincidenza si realizzi.
Negando il trascendente non andrà meglio: Marx sosterrà che la libertà si estrinseca unicamente nella dimensione storico-politica, in una diversa forma di stato in cui si verrà incontro ai bisogni dell’uomo. Prescindendo dalle sue realizzazioni storiche, il comunismo è qui il ritorno dell’uomo a sé stesso, in un orizzonte finalmente liberato dal lavoro costrittivo perché basato sulla proprietà dei mezzi di produzione.
Prima di lui Hegel aveva affermato che, nello stato etico storicamente corrispondente alla Prussia del suo tempo, si palesava la sola dimensione possibile di un divenire liberi che avrebbe dovuto rappresentare la premessa di quel pervenire allo spirito assoluto coincidente con il suo sistema panlogistico.
Il Romanticismo si colloca storicamente tra Kant e Marx avvolgendo Hegel che, per certi rispetti, ne è l’esponente più lucido: oltre le risposte parziali cui abbiamo accennato, è in questa temperie che viene tematizzato il problema della libertà da una prospettiva diversa: quella di una sete, mai paga, di infinito.
Per i romantici la libertà non è nella storia, reale o possibile, ma oltre la storia stessa, pur inverandosi, in istituzioni di diritto positivo.
In questo quadro appare stimolante la posizione del poeta tedesco Friedrich Schiller, emblema del pensiero romantico e creatore della fortunata figura dell’anima bella. Questa, risolvendo l’antinomia Kantiana, compie spontaneamente il proprio dovere.
Si apre in tal modo quella via estetica per cui il bello ci rende autenticamente liberi. Una libertà poliforme attingibile, più che in prospettive di ordine storico – su cui gravava la delusione della Rivoluzione Francese – nella poesia.
Un poetare non più ingenuo, come quello degli antichi che si identificavano con il cosmo, ma sentimentale, perché capace di riflettere sulla natura, dando così origine alla sensazione poetica. La bellezza classica non si realizzava più nella natura o, artisticamente, nell’equilibrio armonico della forma. Il bello andava invece cercato in un itinerario, in quel vagare senza meta che è uno degli aspetti più tipici del sentire romantico. La libertà storico-politica, quella morale, quella sociale, sono altrettante forme indeterminate di questo errare che si riassume nell’anima bella perché capace di superare i contrasti che hanno scisso l’uomo.
Vita e forma, dovere morale ed inclinazione sensibile, spirito e materia, natura e cultura, non sono più poli dialettici, ma ci rendono discepoli della sola scuola che potrà salvarci: quella della bellezza. Una scuola di cui oggi avvertiamo il bisogno.
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