
Oltre le pur splendide ipostatizzazioni pittoriche, la storia della parola teologia mostra la sotterranea contiguità tra la riflessione platonica e quella aristotelica, pur senza negare le ovvie differenze tra i due astri del pensiero occidentale.
Diversità non solo temperamentali, ma soprattutto teoretiche che, assai sottolineate a partire dall’umanesimo, hanno provocato lo smarrimento di alcune tangenze non meno interessanti. Così se Platone fu indubbiamente attratto dalle matematiche che Aristotele ignorò, prediligendo quelle scienze empiriche neglette dall’autore della “Repubblica”, questo non ci autorizza ad opporre i due filosofi in un insanabile conflitto.
Ad avvicinarli è il termine teologia, certo diversamente impiegato, che ci aiuta, anche solo narrandone la plurisecolare vicenda, a capire chi siamo: non come credenti, la fede qui è solo uno degli aspetti, ma come uomini di quell’Occidente che comprende il cosmo ordinandolo. Creatore del lemma – ma non del concetto – Platone grazie alla sua fervida fantasia; ordinatore di quel magma ancora informe Aristotele, in virtù di una capacità tassonomica che parrebbe già, se non annunciare, almeno preludere a sviluppi successivi.
Così se in Platone teologia è quel ragionare attorno al Demiurgo, Dio artefice autore del mondo sensibile in cui l’ordine precede ontologicamente il caos; in Aristotele balugina già quel “monoteismo esigenziale” inteso come necessità logica di un primo motore, immobile, atto puro scevro di potenzialità e, quindi di materia.
E se noi, mortali vincolati al desiderio, al movimento, in una parola, alla potenza, viviamo talora tangenze con la dimensione etico-politica della felicità; egli è in quello stato sempre, eternamente conducendo la più perfetta delle esistenze, quella vita teoretica che il saggio stoico trasformerà in un modello capace di avvincere i primi cristiani.
Il dio aristotelico si pensa e si rimira, non già per narcisismo, ma per una necessità logica: involvendo ogni realtà senza tuttavia esserne condizionato, nulla gli resterebbe da guardare fuori e oltre se medesimo, e rimirandosi, si pensa: anche qui non per egocentrismo ma perché nulla gli resterebbe da pensare fuori e oltre sé. Si potrebbe dire: “Ma il Dio aristotelico è solo”. A ben guardare, però, tale parola lo vincolerebbe alla potenza, all’umano, al non ancora pienamente dispiegato, realtà che non gli si addicono.
A ben vedere, con il Dio aristotelico, il problema è tutto nostro: siamo noi, infatti, che facciamo difficoltà, avvinti come siamo al tempo, finanche a figurarci una simile realtà.
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