
L’ontologia, cioè la scienza dell’essere, è il vero crocevia della greca filosofia e, quindi, dell’intero pensiero occidentale. Mentre la multiforme complessità del reale si squaderna tanto alla teoria sensibile, quanto alla facoltà astraente dell’intelletto, l’occhio plastico dell’elleno, non si inabissa in questa diversità, ma prova a ordinarla limitandola.
E se già il poetare omerico aveva ricercato, a livello fantastico, la causa degli eventi, saranno i filosofi, primo fra tutti Platone, a giudicare quel cosmo che è appunto ordine, migliore del primigenio caos. E la prima forma di ordine è l’affermare recisamente che le cose, oltre ogni diversità, sono – salvo poi – doversi porre il problema di chiarire il senso di tale asserzione.
Un concetto, quello dell’essere, che gradualmente si profila come polimorfo: così da Parmenide ad Aristotele, passando per Anassagora e naturalmente per Platone, si arricchisce di sfumature sempre più varie. Riflettere sull’essere significa porre la cruciale domanda sull’intero, cioè sulla realtà senza esclusione di sezioni o di momenti, oltre il particolarismo di quelle scienze che ne attingono settori limitati.
E se Parmenide ha l’indubbio merito di aver individuato, oltre le contraddizioni singole, quella antitesi suprema tra ciò che è e ciò che non è, risente tuttavia della rigidità di questa stessa opposizione, limitando il pensiero e conseguentemente il linguaggio a quanto esiste. Poco più che un espediente euristico, appare infatti la cosiddetta terza via, mediana tra quella della assoluta verità cioè dell’essere e quella dell’assoluta falsità che prova a dire il non essere.
Si tratta del sentiero dell’opinione plausibile che serve al filosofo monista, secondo il quale tutto deriverebbe da un solo ed unico principio, per spiegare il divenire e la diversità degli enti sensibili erroneamente attestati dalla comune percezione.
La rigidità del filosofo di Elea, che comunque rappresenta un ragguardevole passo in avanti rispetto al fisicismo dei milesi, viene smussata tanto da Platone quanto, in senso “relativistico”, dai sofisti: il primo facendo balenare – proprio nel dialogo dedicato all’autore del “Poema sulla Natura” – il problema del non essere come diverso; i secondi rompendo l’equivalenza tra essere e pensiero, con il celeberrimo esempio gorgiano di carri che solcano le onde del mare, inesistenti, certo, eppure, non per questo, impensabili.
Ma torniamo, per un attimo all’autore della “Repubblica”: dire che il non essere è diverso e non opposto all’essere, significa farlo comunque rientrare, pur se negativamente, nella sfera ontologica. La contrapposizione parmenidea, nella sua rigida stasi si attenua, e può così profilarsi un ulteriore pertugio in questa disputa tanto intricata quanto affascinante. Appare infatti lecito rinvenire una consonanza teoretica tra l’atomista Anassagora e il peripatetico Aristotele.
E se, sostengono entrambi da punti di vista diversi, l’essere non fosse univoco? Asserendo al contempo che “parte di ogni cosa è in ogni cosa” e che una ancora indefinita intelligenza cosmica abbia prodotto questa ordinata mescolanza, Anassagora intraprende il percorso verso la plurivocità dell’essere che però sarà Aristotele a sistematizzare e a completare, approfondendo tanto questa questione da costringere per molti secoli il pensiero ad un mero commento delle sue asserzioni. Lo stagirita, infatti, individua ben quattro sensi in cui l’essere ci si offre…
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