Una materia che profuma di memoria, uno spirito sospeso tra attesa e nostalgia, un tempo soggettivo intriso di emozioni e quindi non riducibile a misura. Oltre la contrapposizione diadica tra materialismo e spiritualismo, Henri Bergson, mentre addita l’intrinseca fragilità del culto positivistico del fatto, vagheggia un rinnovamento dell’umanità fondato sulla costruzione di società e religioni dinamiche attingendo all’inesauribile tesoro disseminato in ogni cultura dai grandi mistici.
Inscritto nella tradizione dello spiritualismo francese, il suo pensiero se ne discosta per la coloritura evoluzionistica capace di arricchire i consueti temi di un Cartesio o di un Pascal, con gli apporti derivanti dalle scoperte della seconda metà dell’ottocento, prime fra tutte quelle di Darwin, lette però in modo diametralmente opposto rispetto alla consueta interpretazione positivistica. In una simile reinterpretazione, oltre al tempo spazializzato proprio della meccanica e più in generale delle discipline scientifiche, composto di istanti misurabili perché uguali; esiste una durata interna di ogni fenomeno che si riverbera nella coscienza.
Lo stesso filosofo francese ci aiuta con alcune immagini a comprendere la cruciale difformità tra queste due concezioni del tempo: alla meccanica sfugge l’esperienza concreta, ed infatti la sua simbolicità è ben rappresentata dalle lancette di un orologio. Per misurare il movimento di un oggetto in uno spazio, occorre farlo coincidere con quello delle lancette in quel luogo limitato che è il quadrante della meridiana.
Si avrà così un tempo quantitativo, misurabile, reversibile, ma totalmente inidoneo a descrivere l’intera realtà umana. Questa è impastata di momenti sinuosi ed irregolari, in cui, con la loro diversa durata, è stabilita anche una libertà ignota alla mera cronicità. Luogo di questa durata – definita anche slancio vitale – come già Agostino aveva intuito, è la coscienza che vive recando in sé la memoria del passato, l’eterea consistenza del presente, l’informe attesa del futuro. Sospesa tra già e non ancora, questa durata è simboleggiata da un filo di perle: irregolari, difformi, variamente lucenti, ciascuna delle quali rappresenta i singoli istanti franti liberamente fusi nel ricordo.
Per l’io, dimora della coscienza, non esistono momenti identici: sepolti nell’abisso della memoria, essi riemergono subitaneamente sempre in modo nuovo. Così il gusto, od anche il semplice odore di pasticcino, richiamano alla mente del cuore un tempo ancestralmente perduto, dischiudendo ad ogni persona sensazioni uniche. Oltre il meccanicismo che biparte il reale e il finalismo che lo riduce a mera causa efficiente, il nostro filosofo, in una simbiosi feconda tra spirito e materia, propone il concetto di evoluzione creatrice. In tale concezione, l’aggettivo allude all’imprevedibile dipanarsi della vita, mentre il sostantivo la racchiude entro un quadro, certo non deterministico, di regole.
È in questo orizzonte che si configura un rapporto inedito tra istinto ed intelligenza, secondo cui
ci sono cose che solo l’intelligenza è capace di cercare, ma che da se non troverà mai; soltanto l’istinto potrebbe scoprirle, ma esso non le cercherà mai.
Nonostante questa apparente dicotomia la condizione umana non è disperata perché l’intelligenza ha la capacità di tornare, in modo consapevole, all’istinto e un simile ritorno è definito da Bergson intuizione. Si tratta di una facoltà eminentemente metafisica, propria delle società aperte e delle religioni dinamiche.
Nei saggi dell’antica Grecia, come ad esempio Socrate, od in eminenti personalità come Gesù, le scelte morali travalicano la mera appartenenza ad un gruppo sociale, fondandosi ultimamente sullo slancio d’amore. Sgorga da questa la radicata convinzione di questo filosofo, secondo cui non già la pseudoscienza dei positivisti, ma la mistica salverà l’umanità.
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