Prof., date una mano ai vostri alunni: fatevi dare del “lei”

Se ci fosse una metaforica borsa in cui le parole venissero quotate, il termine empatia sarebbe sicuramente in rapida ascesa, mentre il lemma gerarchia scenderebbe vorticosamente. Tutti dicono che dobbiamo essere empatici, immedesimarci nell’altro, nel suo vissuto, nelle sue sofferenze per renderle nostre. Un atteggiamento empatizzante favorisce la comunicazione abbattendo quei ruoli stereotipati che invece la insterilirebbero.

L’ossessiva ripetizione di questo messaggio rischia di non farci scorgere più quella parte di verità, non meno importante, veicolata da un atteggiamento solo apparentemente opposto, ma in realtà complementare. Distrutta ogni autorità, ad iniziare da quella paterna, pur raccontandosi di essere più libero, l’uomo di oggi mi sembra più solo e quindi, anche maggiormente responsabile delle sue scelte. Il problema è che l’uomo, soprattutto il giovane, solo non è: gli fa compagnia un eterno pullulare di notifiche, di stimoli, di suggestioni reali e virtuali che lo conducono sempre in un metaforico altrove rispetto a ciò che sta facendo.

La pietanza empatia è condita spesso con un messaggio, anche questo non privo di verità ma altrettanto abbagliante: la sola autorità genera un’obbedienza passiva al contrario dell’autorevolezza, altro termine oggi di moda. Giusto, ma allora un insegnante autorevole è colui che: individua, per quanto possibile, criteri valutativi chiari ed univoci, li esplicita ad inizio anno e poi – questo è fondamentale – li rispetta. Un insegnante autorevole non è schiavo del “andrà tutto bene”, non cancella valutazioni negative antecedentemente assegnate; sa valorizzare i singoli percorsi, premiando l’impegno ed il miglioramento, ma non impedisce all’allievo di vedere la realtà fosse anche quella della sua attuale fragilità. Una fragilità umana, quindi, cui si può e si deve rimediare.

Riflesso di questo dibattito è il ritorno della discussione sulla modalità di comunicare con l’insegnante: il paludato “Lei”, lemma emblema di una società ottundente perché gerarchica, o l’informale “Tu”, paradiso di un’eguaglianza che favorirebbe, essa stessa, la trasmissione dei contenuti. A costo di rischiare l’impopolarità spiegherò perché sono contrario a questa posizione: non credo che il rispetto che gli studenti debbano avere per me sia legato solo ad un appellativo, ad un ruolo, ad una cattedra. Credo però che, proprio mentre la rete e spesso anche le famiglie propongono una relazionalità meramente orizzontale, la scuola debba educare a un rapporto che, per quanto non ci piaccia dirlo, resterà sempre, da Platone in poi, una relazione asimmetrica. È vero che gli allievi non sono solo vasi da riempire, ma stiamo attenti anche al rischio che i vasi restino vuoti: vuoti non solo di nozioni, ma di senso, e quindi pregni di noia che, anche quando non provoca conseguenze eclatanti, genera comunque esistenze infelici. Chiediamoci perché noi adulti abbiamo così paura di costruire relazioni anche asimmetriche, perché siamo tanto lusingati dal trasformarci in amici dei nostri allievi o dei nostri figli.

È difficile tentare di rappresentare un “modello”, lo è tanto più oggi, in un tempo di mutamenti vorticosi ed imprevedibili in cui noi stessi non sappiamo cosa ne sarà, solo per fare un esempio, del mondo del lavoro. Se è affascinante l’incertezza, non possiamo nasconderci che questo stato d’animo genera anche paura e stress. Far crescere giovani capaci di stupore, di riconoscenza, di gratitudine per la vita della natura e per la loro stessa esistenza, guidandoli nel labirinto della filosofia aristotelica, è un’esperienza che riempirà il vissuto di chi deciderà di accoglierla, tanto che farà meglio qualunque attività che si configurerà come la risposta a quel dono immeritato. Un dono oggi offuscato dall’ossessione del diventare qualcuno che ottunde il presente in nome di un futuro al quale ci si può preparare solo riempiendosi di umanità.

E l’umanità prevede anche la vertigine dei rapporti asimmetrici, quella vertigine che l’etimo greco della parola gerarchia rappresenta emblematicamente. Gerarchico è un principio sacro, cioè separato dal turbine della vita quotidiana, perché chiamato ad esserne il segreto carburante. Ed allora l’inattuale gerarchia ci provoca a pensare ed a vivere qualcosa di eminentemente separato da noi, da ciò che siamo, da ciò che vorremmo essere o diventare.

Informazioni su Alessio Conti 37 articoli
Nato a Frascati nel 1974, Alessio Conti è attualmente docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico statale Bruno Touschek di Grottaferrata. Dottore di ricerca in discipline storico filosofiche, ha pubblicato con l'editrice Taυ due libri (Fiat lux. Piccolo trattato di teologia della luce [2019], e Storia della mia vista [2020]). Già docente di religione cattolica per la Diocesi di Roma, è attivo nel mondo ecclesiale all'interno dell'Azione Cattolica Italiana di cui è responsabile parrocchiale del gruppo adulti. Persona non vedente dalla nascita, vive la sua condizione filtrandola grazie a due lenti, quella dello studio, e quella di un'ironia garbata e mordace, che lo porta a vivere, e a far vivere, eventi e situazioni in modo originale.

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