Lo scienziato moderno non è un alchimista o un mago depositari di un “sapere” occulto e privato, né un commentatore di Aristotele la cui parola inappellabile non possa essere sottoposta a verifica. Non è neppure un dotto nel senso classico del termine che si occupi unicamente di far risorgere, in pieno Umanesimo, quella paideia obliata da secoli. Neppure si può dire, come troppo spesso si tende a fare, che l’uomo di scienza sia un empirista perché limita il conoscere all’esperire, relegando la filosofia nell’iperuranio di un’inutile astrazione.
Queste definizioni apofatiche – capaci di dirci cosa lo scienziato non è – sono preliminarmente necessarie alla positiva delineazione del suo ruolo. Egli è piuttosto l’alfiere di un nuovo tipo di conoscenza sorta, non certo casualmente, in quell’Occidente troppo impegnato a colpevolizzarsi per attingere quanto di durevole ha apportato al sinuoso incedere della cultura umana. Ricostruirne, tramite quattro aggettivi lo statuto epistemologico, appare per molti rispetti cruciale nella odierna temperie culturale.
Una conoscenza, si diceva, pubblica in quanto suscettibile di accrescersi grazie al confronto tra più scienziati, autonoma dal dato rivelato e dalle antiche autorità, controllabile grazie agli strumenti che ne sono parte integrante e progressiva, perché storicamente dispiegatasi in quel secolo che intercorre tra la nascita di Copernico (1473) e quella di Keplero (1571).
Ripercorrere, pur se rapidamente, la genesi dell’uomo di scienza, significa parlare anche del nostro tempo, perché il metodo che presiede alla validazione di ogni sua scoperta allude ad una conoscenza relativa ma valida, naturalmente incline alla discussione e al confronto che risulta particolarmente utile nel tempo della cancellazione e della polarizzazione.
Oggi, più che incontrarsi, le idee tendono a collidere, in un alternarsi di posizioni manichee spesso urlate con una perentorietà tale da far ulteriormente risaltare la loro sostanziale debolezza. La conoscenza scientifica nasce come intrinsecamente storica in un duplice senso: da un lato viene sollecitata da vari fattori contingenti, dalla relativizzazione di alcune concezioni politiche, veicolata dalle scoperte geografiche, alla ridefinizione contemporanea del geocentrismo e del connesso antropocentrismo che sfidavano il dotto cristiano a rinvenire un altro luogo in cui collocare Dio stesso.
Dall’altro, il suo proporsi come programmaticamente falsificabile, cioè relativamente vera, fino a quando non si reperiscano spiegazioni più adeguate del fenomeno in esame, stimola la ricerca, a patto che ci si sottragga a quel fanatismo scientista, secondo cui non si darebbe alcuna ”verità”, oltre l’orizzonte dell’empiricamente ostensibile.
Il complesso processo che si suole denominare rivoluzione scientifica muta il concetto stesso di un Dio divenuto geometra del mondo, al quale imprime un ordine matematico che il ricercatore è chiamato a svelare, in una fusione tra creatività e metodo. In una simile impresa lo scienziato è illuminato da quella mistica del sole i cui raggi, di remota ascendenza neoplatonica, si irradiano fin nel pensiero di Copernico.
Il ”nuovo sapere” crea una teoria capace di fecondare il reale, divenendo così pubblicamente verificabile e quindi necessariamente autonoma e progressiva. Nel breve volgere di un secolo si assiste ad un percorso simultaneamente diverso e convergente rispetto a quello appena delineato: è infatti il tragitto che conduce ad una valorizzazione di quelle tecniche artigianali – prima fra tutte la fabbricazione delle lenti – che consentono questa verifica tramite un processo di legalizzazione dello strumento.
Potenziando, e talora rettificando le attestazioni dell’esperienza sensibile, il cannocchiale diviene parte del sapere scientifico, non più plasmato sull’autorità né circoscritto alla mera esperienza, ma capace di servirsi alternativamente tanto della deduzione quanto dell’induzione.
Proprio per questa sua intrinseca duttilità metodologica, la scienza non si riduce alla pur necessaria perizia degli artigiani superiori: essi infatti sanno il come, ma ignorano il perché, al pari di un odierno elettricista che riesce a costruire un ottimo impianto, pur non conoscendo le ragioni profonde del funzionamento della corrente.
Del resto, per tornare all’alveo storico di questo articolo, molti naviganti hanno lottato con le alte e le basse maree, ma, dopo gli errori di Galilei e le imprecisioni di Keplero, dovette essere Newton a fondarne teoricamente la genesi.
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