I pensatori poliedricamente profondi perlustrano varie direttrici del sapere, non sempre univoche, tanto che il tentativo di racchiuderli negli stilemi di una corrente culturale può risultare talora nefasto. È certamente questo il caso di Rousseau: illuminista eretico, ma anche romantico, araldo di una libertà aurorale, ma anche precorritore di una statolatria totalitaria, immerso nella natura, ma pure teso a fondare una nuova civiltà, critico del cristianesimo, ma non della religione in quanto tale distinta in quella dell’uomo e del cittadino.
In una simile prospettiva però è il singolo stesso a dissolversi tanto che la stessa dimensione del privato annega ne “lo gran mare” del politico. Ed è proprio questo dissolvimento dell’individuo, interamente assorbito nella volontà generale, a delineare il problematico rapporto del filosofo ginevrino con il liberalismo, in un progressivo avvicinamento ad un ossimorico democraticismo totalitario. Egli, non certo suo malgrado, è divenuto così l’ispiratore remoto di regimi di matrice comunistica che si sarebbero connotati per un’eguaglianza priva di libertà, soprattutto nel secolo XX.
In tempi biograficamente a lui più contigui, questo pensatore ha fornito lo sfondo teoretico alle fasi più radicali della rivoluzione francese, anche quando questa è degenerata nel terrore del direttorio. Se per illuminismo si intende un faticoso e sinuoso incedere della ragione capace di dominare sulle passioni e sui dogmi, Rousseau fu illuminista e, proprio in virtù di questa sua appartenenza, contestò agli autori dell’“Enciclopedia” quella fiducia ingenua nel progresso, nelle scienze, nelle lettere, nelle arti capace a suo avviso unicamente di corrompere l’uomo. Se per romanticismo si intende il sentirsi simbioticamente parte della natura, Rousseau fu certamente romantico, ma in nome di questa appartenenza contestò agli Sturmer quel ritorno ad una mitica età dell’oro irrimediabilmente perduta con cui costoro identificavano il mondo stesso. Più che coincidere con un passato storico, vicino o remoto, lo stato di natura rappresenta per l’autore del “Contratto sociale” un ideale regolativo, da cui però la ragione non appare totalmente bandita.
È per questo che ne “L’Emilio” – la sua principale opera pedagogica – il suo precettore costringe il protagonista del romanzo a separarsi dall’amata Sofia, per comprendere che la ragione deve sottomettere le passioni:
Ti ho cresciuto, asserisce il maestro, piuttosto buono che virtuoso, ma chi è soltanto buono si conserva tale fino a quando la sua bontà non è annientata dalla furia delle passioni.
Sull’orizzonte dell’educando si staglia quel principio della “libertà ben guidata” che muterà il naturale amore di se in amore della comunità, tramite un itinerario pedagogico graduale e rispettoso delle diverse fasi dello sviluppo del fanciullo. Si forma così, come abbiamo detto, un uomo totalmente assorbito nella sua dimensione di cittadino che, sciolto dalle catene della proprietà e dall’ineguaglianza, è finalmente restituito alla libertà. Egli si pensa come costitutivamente associato agli altri, chiamati, in un filosofare di remota ascendenza platonica, a sottomettersi unicamente alla legge. Una palingenesi storica che obbliga le singole volontà a soggiacere a quella generale, non mera somma dei voleri individuali.
Una simile volontà guida lo Stato verso il bene comune, bandendo passioni e desideri di accumulazione che la proprietà invece fomenta: una concezione radicalmente diversa da quella del liberalismo e dell’economia classica inglesi. Secondo tali posizioni, infatti, occupandosi dei suoi interessi privati, l’individuo favoriva anche quelli dello stato poiché la mano invisibile del mercato li dirigeva entrambi. Nell’orizzonte distopico del filosofo ginevrino, invece, parrebbe inverarsi la critica che Carlo Cattaneo opererà contro le varie forme di comunismo. Queste, giova ricordarlo, distruggono la ricchezza, senza porre rimedio alla povertà.
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