Ingrandire ciò che all’occhio appariva piccolo, avvicinare quanto era lontano, diradare quella coltre di nebbia che faceva ritenere il mondo sublunare e quello etereo radicalmente diversi. Galileo Galilei non inventò il cannocchiale, ma fu più grande di chi, già in pieno Medioevo, aveva scoperto le lenti, perché non si limitò a divertirsi organizzando giochi di prestigio, puntandole invece verso il cielo. Così questo strumento farà ufficialmente ingresso nella scienza, mutandone i paradigmi interpretativi, in un sapiente equilibrio tra l’esperienza potenziata dal binocolo ed il ragionamento che spiegava quelle mirabolanti visioni.
Il realismo epistemologico galileiano, cioè la convinzione secondo cui le sue scoperte non fossero solo un modello ma, al pari del copernicanesimo, rappresentassero una descrizione del mondo più vera di quella fondata sulla veneranda autorità di Aristotele e Tolomeo, lo condurrà fatalmente allo scontro con la Chiesa. Un vero e proprio dramma che si concluderà solo con l’abiura del 1633. In questo dramma si inserisce a pieno titolo il rifiuto galileiano delle letture strumentalistiche delle sue ”sensate esperienze” operate tanto in ambito cattolico, quanto in quello protestante.
Non è certo un caso che sia il Gesuita Roberto Bellarmino, sia riformatori come Lutero e Melantone, tenteranno di depotenziare le scoperte galileiane, come se fossero un altro modello, capace comunque di convivere con il sistema geocentrico di matrice tolemaica. Così grazie non solo allo strumento le cui mirabolanti attestazioni lo scienziato pisano riporterà nel “Sidereus nuncius” – 1610 – ma al connesso primato delle “sensate esperienze”, Galilei adunerà un’incredibile serie di prove che, mentre assestano colpi mortali al sistema aristotelico, inverano quello eliocentrico con una forza cui nessuna autorità potrà più resistere.
Quella Luna, cantata dai poeti d’ogni epoca e cultura, non era, contrariamente a quanto pareva ad occhio nudo, immutabilmente levigata, ma irta di anfratti, prominenze, avvallamenti, in poche parole soggetta, essa stessa, al mutamento. Sempre il cannocchiale conduce Galilei a ingrandire l’universo, con lo scorgimento di tre stelle fisse, mai prima vedute. A mutare è anche il concetto di Galassia tanto da divenire una congerie di astri innumerevoli che punteggiano e illuminano il cielo ovunque si diriga il binocolo. E con la scoperta dei Satelliti di Giove, detti medicei, anche i Pianeti non sono più gli stessi, uscendo da quel cono di inalterabilità in cui Aristotele li aveva ingabbiati.
Così gradualmente alle grandiose speculazioni degli intelletti ellenistici e medievali, si accompagnavano quelle, non meno complesse, della moderna scienza, che, però, a differenza delle prime, facevano i conti con le attestazioni di un’esperienza potenziata da oggetti come il cannocchiale. Un nesso inscindibile lega i vorticosi mutamenti nel campo delle scienze e gli strumenti che da un lato li rendono possibili, dall’altro ne divengono, essi stessi parti costitutive. Grazie a queste scoperte possiamo intravedere anche il diverso ruolo che lo strumento assume lungo quel tortuoso percorso convenzionalmente denominato rivoluzione scientifica di cui la fisica quantitativa di Galilei rappresenta una tappa fondamentale. Se infatti, da un lato viene visto come potenziamento dei sensi, dall’altro esso – è questo il caso degli avvallamenti lunari – può addirittura correggere quegli inganni dell’occhio su cui già Platone si era soffermato.
Ma lo strumento talora altera la stessa esperienza che pure rende possibile e da tale rischio, insito nel passaggio dall’esperienza all’esperimento, occorre cautelarsi. Per farlo lo scienziato deve rivalutare arti tradizionalmente disprezzate perché vili, come quella dei fabbricanti di lenti: una rivalutazione fatta di costante tenacia, di prove più volte ripetute, di tempo e spese profusi senza fine. È Galilei stesso, in alcune sue lettere, a narrarci questa fatica. Nel 1609 giunge allo scienziato notizia che un fiammingo aveva fabbricato un occhiale grazie al quale gli oggetti visibili, nonostante fossero distantissimi dall’osservatore, si scorgevano come se fossero vicini. Lo scienziato pisano si ingegna a costruire un simile strumento: applica ad un ramo di piombo quattro lenti, due piane da una parte ed una convessa ed una concava dall’altra. Guardando nella lente concava e perfezionando gradualmente le sue ricerche egli giunse a fabbricare uno strumento capace di far scorgere le cose ben 1000 volte più grandi e 30 volte più vicine.
Prima di Galileo non ci si fidava delle lenti, ci volle il suo genio – quello di un occhialaio non sarebbe bastato – per introdurre i risultati scorti nell’alveo della scienza. Ma quel genio aveva, per la prima volta, bisogno anche dell’occhialaio, per abradere un mondo di carta e costruire “il mondo vero”.
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