Doveva ancora compiersi quella matematizzazione del mondo di cui Galileo Galilei sarebbe stato uno dei protagonisti principali, quando Cusano, uomo liminare tra il declinante evo medio e l’umanesimo incipiente, esplorava le possibilità allusive della geometria.
Tedesco di origine, ma italiano per formazione, studiò nel quattrocento a Padova, senza però farsi sedurre dall’imperante clima aristotelico. Nel suo pensiero i punti, le linee, le stesse figure geometriche, divenivano altrettanti pertugi per dire l’ineffabile, cioè quel rapporto tra finito e infinito in cui l’ignoto non cessa di attrarre, pur restando indicibilmente lontano. Si configura in questo quadro il tema della dotta ignoranza, in cui l’aggettivo corregge il sostantivo, in un recupero, non irenico e per questo profondo, di Anassagora e Platone, riletti nella loro vitalità, oltre le aporetiche secche di un’agonizzante scolastica.
Ma a tornare qui è soprattutto Pitagora, con quella sua inesplorata dilatazione dello stesso spazio del numero che sfiora le vette della mistica, ancora non ingabbiato nella configurazione – per noi divenuta naturale – di un ente di ragione. Se questo recupero in chiave teologica delle matematiche potrebbe far pensare al nostro filosofo come ad un uomo legato al passato, quindi estraneo alla temperie umanistica, il suo rifiuto dei temi e più ancora dei contenuti della scolastica, lo proietta verso il futuro.
Come tutti i grandi pensatori anche il Cusano non si lascia imbrigliare in una corrente, rifugge gli schemi procustei in nome del genio capace di intuire. Cercare per lui significa mettere in relazione il certo con l’incerto, l’ignoto con il noto. Riaffiora qui il vecchio tema platonico per cui non si può cercare né ciò che si possiede – perché lo si possiede – né ciò di cui si ignora l’esistenza – perché non si saprebbe neppure cosa cercare. A questa regola, però sfugge l’indagine più importante e profonda: quella su Dio. Egli infatti si colloca strutturalmente oltre ogni proporzione, e la mente umana, irretita nel finito fatto di cangianti simmetrie, anela a questo oggetto che sempre la sorpassa.
Non è quindi paradossale il nome di dotta ignoranza con cui il filosofo qualifica questo nostro struggente desiderio che, se ci resta logicamente inaccessibile, diviene abbordabile dal punto di vista allusivo. L’intelletto sta alla verità come il poligono inscritto sta al cerchio: quanti più angoli avrà il poligono, tanto più si avvicinerà al cerchio, senza però divenire mai, esso stesso, cerchio. È questo solo uno dei tanti suggestivi esempi tratti dal mondo delle figure che Cusano ritiene capaci di un’ulteriorità oggi ignota e dimenticata. Un’allusività che trapela dall’altra sua celeberrima definizione del divino come coincidenza degli opposti, capace di lambire,ancora una volta, le vette della mistica, recuperando quel Dionigi l’Aereopagita che tanto influenzò la speculazione dell’Evo Medio.
Se in Dio che è infinito, massimo e minimo coincidono, allora anche la nostra conoscenza, quando veleggia verso di lui, deve abbandonare i tradizionali parametri come i principi aristotelici di identità e non contraddizione, validi certo, ma nell’ambito delle cose finite. La percezione è sempre affermativa, io percepisco enti che sono altri da me, la ragione è invece discorsiva: in caso di proposizioni contraddittorie, affermandone una se ne nega l’altra. Ma questi criteri valgono per gli enti finiti, con un atto di superiore intuizione è l’intelletto a cogliere la coincidenza degli opposti, al di sopra di ogni affermazione e negazione.
Pur se per una via originale, qui il nostro filosofo concorda con una profondissima istanza del Rinascimento: la valorizzazione dell’uomo, il solo essere dotato di intelletto e di libertà. Ciascuno di noi è per lui un microcosmo, un piccolo mondo in cui l’universo, a un tempo si contrae e si esplica, perché, come scrive Cusano nelle congetture, «l’uomo può essere un Dio umano, o umanamente un Dio».
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