Le dolci colline toscane che cingono la Firenze del quattrocento restano ancora oggi testimoni mute, ma non certo indifferenti, della triplice attività di Marsilio Ficino noto come traduttore di Platone, filosofo e mago.
Una traduzione guidata da precisi interessi teoretici, oltre che filologici: risalire all’originale greco delle monumentali opere dell’autore del “Timeo” voleva dire non solo attingerne il testo, senza dover necessariamente fruire di antecedenti versioni latine, ma soprattutto entrare in contatto diretto con uno dei più eminenti esponenti di un pensiero pregno di valore per il tempo in cui Ficino visse. È questo il senso che gli umanisti dettero al concetto di modello: non già ideale astrattamente inarrivabile, ma termine di paragone cui avvicinarsi gradualmente, facendolo vivere in modo nuovo.
Il pensiero ficiniano si inserisce così in quella reviviscenza dell’autore della “Repubblica” che, permeando l’umanesimo, costituirà una delle fonti cui si abbevererà la stessa rivoluzione scientifica. Il percorso che – circa un secolo dopo – condurrà a una figura come quella di Galileo Galilei, sarà certo sinuoso e scarterà alcune delle concezioni proprie del Rinascimento perché segnate da un troppo marcato influsso magico-alchemico, sottovalutando le quali però si rischia di non comprendere proprio l’incedere della scienza moderna, capace di emergere ed emanciparsi da questo informe magma. Al pari degli altri amatori della filosofia con cui fondò l’Accademia Platonica Fiorentina, Ficino era convinto che la fede dei semplici non bastasse, ma che per far ascendere l’umanità a livelli più elevati, fosse necessaria una religione dotta.
Preannunciata dai grandi profeti, come Zoroastro ed Orfeo, vissuta da Pitagora e, soprattutto, Platone, questa dotta religione si rivela ultimamente in Cristo. Ancora ai tempi del nostro autore essa è attingibile tramite la magia naturale che nulla ha che spartire con le pratiche dei fattucchieri, riconnettendo l’uomo a quell’universo di cui egli stesso rappresenta la parte più nobile. Occorreva fondare quella dignità della persona che gli altri umanisti erano stati, al più, in grado di descrivere ad un livello fenomenologico. Per incardinare tale preminenza Marsilio Ficino ricorrerà ad alcuni capisaldi: dalla filosofia intesa come divina rivelazione, ad un’antropologia secondo cui l’anima è copula mundi. In questa visione al pari della copula in una proposizione, la psiche, occupando una posizione mediana, unisce la parte del mondo sensibile con quella del cosmo intellegibile.
Da questa concezione discende direttamente – non tanto in senso gerarchico, quanto dal punto di vista teoretico – la valorizzazione dell’uomo. Composta della stessa “sostanza” del mondo intellegibile, l’anima razionale è capace di vivificare il cosmo sensibile, per cui platonicamente il conoscere non è che un tornare presso quelle idee archetipali di cui, imprigionato in un corpo, ciascuno di noi prova struggente nostalgia.
Rampolla da qui il primato della bellezza ridestatrice, nei suoi vari gradi, di armonia ed ordine, secondo quella teoria dell’amore platonico che influenzò molto la filosofia e non poco la letteratura cortese dell’Evo Medio. Ma l’amore platonico qui si congiunge con quello cristiano, mediante la reintegrazione dell’uomo stesso in Dio: grazie alla libertà, infatti, la persona può ascendere nella scala gerarchica degli esseri, per così dire indiandosi, cioè divenendo Dio essa stessa: un’idea destinata a fare molta strada, anche se non sempre nel senso auspicato dal Ficino.
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