E se non già il conformarsi ad assiomi immutabili, ma la cangiante opinione di ogni uomo, fosse quella misura, quel principio, quella sapienza che, i filosofi cercavano ovunque ormai da non pochi decenni? Nell’Atene democratica l’ipotesi si affaccia con Protagora di Abdera, prima di divenire, ai nostri giorni, la sola certezza che tutti condividono in modo irriflesso.
Interrogare la portata di questa opinione ci conduce a scandagliarne anche gli esiti, sottoponendola a quella riflessione che la sua mera ripetizione non basta a sostituire. Nato nel decennio tra il 491 e il 481 a.C., Protagora visse a lungo e viaggiò per tutta la Grecia, assistendo in tal modo a un’irriducibile varietà di costumi, difformi non solo tra diversi popoli, ma anche tra singoli uomini appartenenti alla medesima comunità.
Sorse da tale constatazione il principio cardine della sua filosofia:
Gli interpreti hanno assegnato significati diversi tanto alla parola uomo, quanto al termine cose, facendo così oscillare la valutazione stessa del pensiero protagoreo. Dilatare il significato del termine uomo, sostenendo che il filosofo abbia inteso con esso non il singolo individuo, ma un determinato gruppo di persone accomunate da valori – esempio gli abitanti dell’Attica – riduce certo la portata relativistica del pensiero protagoreo, dischiudendo però il problema di come circoscrivere tali gruppi presuntamente omogenei.
Con “tutte le cose” il filosofo dovette intendere non solo l’ambito dei fatti, ma anche quello della loro interpretazione di cui il singolo individuo sarebbe misura, cioè criterio di giudizio. Un esempio tratto dall’opera del pensatore di Abdera può aiutarci a capire meglio: due persone sono esposte allo stesso vento: è freddo? È caldo? Per colui che ha freddo è freddo, per colui che sente caldo è caldo, in tal modo nessuno è nel falso, ma ciascuno è nel suo vero. Parrebbe tutto risolto, ma non è così, perché lo stesso Protagora avverte il problema di comunicare questo vero relativo, facendolo trionfare su altre opzioni poiché ciascuna di esse trova argomentazioni in grado di sostenerla.
Di qui nascono le “antilogie” che sorgono dalla convinzione secondo cui su ogni argomento sia possibile dire e contraddire cioè supportare dialetticamente ciascuna delle tesi in campo. É anche possibile, e questo è il punto più interessante della filosofia protagorea, insegnare l’abilità tecnica necessaria a rendere più forte l’argomentazione apparentemente più debole. La virtù che Protagora insegnava consentiva ai rampolli delle famiglie ateniesi di eccellere nelle assemblee e nei tribunali, in un mondo in cui non esistevano più valori assoluti.
E tuttavia il relativismo protagoreo fa coincidere il bene con l’utile e il politicamente opportuno, ed il male con il dannoso. Un mondo composto di verità relative non è un cosmo privo di regole, ma unicamente uno spazio in cui i criteri valutativi non siano invariabili, cioè svincolati da ogni circostanza particolare. Se infatti, secondo lo stesso Protagora, ciascuno resta imprigionato nel suo vero individuale che eleva ad assoluto, allora è la stessa democrazia a perdere di senso, ed ogni persona simile ad una monade, priva di porte e finestre, rimane chiusa in se medesima. E ciò accade appunto quando è il relativismo a divenire un assoluto illimitato, incapace di tollerare non questo o quel criterio, ma l’esistenza stessa di un criterio.
Non è certo questa la posizione protagorea che, rispetto a Gorgia, sposta l’attenzione dalla parola al ragionamento dialettico, anticipando il Socrate platonico. Quest’ultimo, però, tornerà a muoversi in un orizzonte assiologico raccogliendo una sfida ancor più ardua: mostrare con argomentazioni razionali come alcune scelte siano logicamente ed eticamente anteponibili ad altre. Non è un caso se, per abbordare questa fatica egli si servirà di un nuovo genere letterario: il dialogo filosofico.
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