Sorta nelle colonie dell’Asia Minore come cosmologia naturalistica, la giovane filosofia sbarca nella Magnagrecia, divenendo essa stessa grande. Siamo nel VI secolo a.C. e l’attuale “Italia” meridionale è un crocevia di culture, di commerci, ma soprattutto di idee.
I principali tratti di questo sviluppo sono già visibili in Parmenide, fondatore della Scuola di Elea, che individua, oltre le domande sul principio di tutte le cose, una contrapposizione ancor più radicale. Esprime questa opposizione fondamentale in un “poema sulla natura” di cui ci sono giunti quasi integralmente il prologo e la prima parte, insieme a sezioni frammentarie della seconda. L’involucro narrativo e la stessa composizione in versi aggiungono fascino alla scoperta del grande principio che una Dea rivela al filosofo.
In compagnia delle figlie del sole il pensatore eleatico viaggia su un carro, trainato da veloci cavalle: valicata la soglia fatale, ode il supremo insegnamento:
Un assioma fondamentale che, mentre trasforma la cosmologia in ontologia – cioè in scienza dell’essere – pone le basi della logica occidentale perché il pensiero e quindi lo stesso linguaggio, presuppongono l’esistenza di ciò che pensiamo e diciamo. Un assioma che andrebbe rammentato allo stesso occidente, capace di ordinare il mondo, descrivendolo poi anche in forma scientifica, proprio alla luce di questi due supremi contraddittori che, come tali, si escludono vicendevolmente.
Ma inoltriamoci nella narrazione poetica; la Dea indica tre vie:
- quella dell’assoluta verità o dell’essere,
- quella dell’errore o dell’opinione fallace, e
- quella che potremmo definire dell’opinione plausibile perché, pur senza venire meno alla radicale disgiunzione delineata, cerca una qualche forma di mediazione.
L’essere è il puro positivo, mentre il non essere rappresenta l’assoluto negativo: pensare il nulla significa non pensare affatto. Un principio che evolvendosi diverrà quello di non contraddizione attinto qui nella sua valenza ontologica, ma suscettibile di futuri sviluppi in campo logico e linguistico.
Questo essere parmenideo possiede alcune caratteristiche che ne connotano strutturalmente l’esistenza: è ingenerato e incorruttibile, poiché essendo sempre e da sempre non ha mai avuto inizio né avrà mai fine.
Il nostro filosofo esclude qualsiasi passaggio dall’essere al non essere, e viceversa, ma così facendo si involve nel problema di dover spiegare il divenire, inteso come mutamento veicolato dai sensi. Un mutamento che egli, come avviene per ogni conoscenza opinativa, prima nega, poi riduce a mera apparenza con l’espediente della terza via, in assoluto la più debole dal punto di vista argomentativo.
L’essere è quindi anche finito, cioè in sé compiuto, e sferiforme, perché, come già avveniva per i pitagorici, il cerchio è emblema di perfezione, cui ogni uomo si può avvicinare non con riti espiatori, ma con la pratica filosofica. Opposta alla prima via è naturalmente la seconda: se il sentiero della verità era quello del giorno, quello dell’errore, percorso seguendo i sensi, simboleggia la notte buia, in cui ogni attività e lo stesso pensiero si arrestano.
Sono i sensi a farci smarrire per questa via, poiché, almeno apparentemente, essi ci dicono che le cose mutano e che noi stessi cambiamo con loro. Ma di apparenza ingannevole si tratta: divenendo scienza dell’essere la filosofia si distanzierà dal senso comune e la sua sfiducia nelle percezioni sensoriali, passando per la grande sintesi platonica, giungerà fino ai pensatori cristiani.
Una sfiducia solo parzialmente attenuata, almeno nel filosofo di Elea, dalla terza via: il carattere frammentario dei testi giunti fino a noi non consente di ricostruire compiutamente questo aspetto del pensiero parmenideo, possiamo però dire che, pur di non attenuare la grande antitesi tra essere e non essere, anche quando parla di ciò che gli appare mutevole, Parmenide lo sussume comunque nella sfera ontologica. Egli, insomma salva l’essere, ma non i fenomeni che in certo modo, verranno riscattati da Platone, quali sbiadite copie del vero essere per cui provano quella struggente nostalgia che chiamiamo amore.
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