Scoprire che l’uomo era la sua anima e che quindi non dalla ricchezza nasceva la virtù, ma dalla virtù promanava ogni ricchezza.
Fu questo il destino di Socrate che, pur senza aver composto opere, proprio mentre la transizione dall’oralità della cultura mitica alla forma anche scritta di quella filosofica non era ancora completa, donò al mondo quel primato della coscienza individuale sulla forza riconosciuto anche oggi come una delle caratteristiche più salienti della filosofia morale occidentale.
Prima di lui il pensiero si era variamente occupato del cosmo fisico, con esiti contraddittori e quindi insoddisfacenti: si era infatti individuato un unico principio o una serie di princìpi, capaci di spiegare l’origine di quanto esiste. Così l’uomo, e la stessa natura, vennero pensati o come l’aggregarsi e il disgregarsi di atomi – Democrito – o come multiforme irraggiamento dell’essere su cui, solo, erano possibili il pensiero e il linguaggio. Attorno a Parmenide, il movimento era stato oggetto di aspre controversie: se gli eleatici lo avevano recisamente negato, Eraclito ne aveva proclamato l’assurgere a simbolo di quell’armonia dei contrari da cui ogni ente, a partire dall’uomo, era sorto.
Proprio queste contraddizioni, oltre a contingenze storiche come la nascita della democrazia diretta ateniese, offrirono a Socrate quegli spunti di riflessione da cui sorgerà la sua rivoluzione. Il filosofo comprese che non della natura metteva conto di occuparsi, ma dell’uomo e della formazione dei giovani non tanto nelle pur rilevanti arti ginniche od oratorie, quanto nella quotidiana coltivazione dell’anima, affinché divenisse sempre migliore.
E se Atene, ormai divenuta la culla della filosofia ellenica, potè nel 399 a.C. condannarlo a morire bevendo la cicuta – accusandolo di empietà e conseguentemente di corruzione dei fanciulli –, imperiture restano le sue parole scolpite nella platonica Apologia: «Io vado a morire, voi a vivere, solo il Dio sa quale sia la sorte migliore».
Calibrata sulla misura del divino l’umana sapienza è di esile valore e, per questo, l’arma dell’ironia socratica destinata a colui che si proclamava saggio o esperto di una certa arte, risulta particolarmente affilata. La confutazione elenctica rappresenta il campo di battaglia in cui la maschera dell’ironia mostra tutta la sua potenza. Platone in non pochi dialoghi fa entrare in scena un Socrate che, magnificando la sapienza del suo interlocutore, unanimemente riconosciuto come esperto in una certa arte, ne mostra in realtà la fallacia.
Incalzato dalle domande del filosofo, il presunto saggio balbetta solo definizioni parziali e unilaterali del problema in questione. Dovendo parlare dell’essenza del coraggio, lo collega, da buon generale, al furore della battaglia, ma il pensatore ateniese gli obietta che non meno ardimentosi bisogna essere, ad esempio, nel farsi operare da un medico – anche se valente.
In tal modo la contesa prende una via imprevedibile tanto da ribaltare le iniziali premesse perché Socrate ammette la sua ignoranza, mentre il presunto sapiente la ricusa, non essendone neppure consapevole. Così l’“ignorante” Socrate sa qualcosa, cioè di non sapere; mentre chi credeva di conoscere in realtà non sa.
Un polarismo questo da cui tutto l’uomo e ogni uomo è attraversato: ed è per ciò che il mortale al più può essere filosofo, cioè cercatore, amico, amante di una sapienza che sempre gli sfugge di mano chiedendo così di essere cercata ancora.
Quella dell’uomo è una conoscenza non solo flebile, ma anche nascosta: dalle cortine fumogene degli incanti delle parole, di cui si beavano alcuni sofisti decadenti detti per questo eristi, o peggio dai sortilegi dei poeti, capaci di comporre solo per divina ispirazione. Per questo una simile sapienza va cercata insieme, analogamente a quanto fa la levatrice che consente, non a tutte le donne, ma solo a quelle gravide, di dare alla luce l’infante. Ed ecco la maieutica, arte di far partorire le anime migliori: un cimento difficile che il Socrate platonico affida al dialogo, la più mobile forma di scrittura in un duplice senso: esteriormente esso riproduce infatti gli stilemi propri della cultura orale, incapace di fissare il pensiero, non ancora tramontata; interiormente, ravviva quel continuo confronto dell’anima con se stessa e con l’altro da cui sorge e di cui si alimenta la ricerca del vero.
Ben prima di Heidegger Socrate ha insegnato che la verità è disvelamento, graduale e progressivo, che dischiude un’indagine sempre rinnovata; mentre lo scetticismo, cioè l’idea che non metta conto cercarla, paralizza l’uomo.
Una simile ricerca è inscritta nel nome che la tradizione affida alla madre del filosofo ateniese, levatrice essa stessa: Fenarete, cioè colei che aiuta la virtù a venire alla luce.
Socrate non ebbe beni materiali, ma arricchì molti, non si mosse mai dall’Attica se non per combattere, ma compì forse il viaggio più avventuroso, quello che spinge ciascuno a conoscere se stesso, perché ignorarsi ed ignorare sono due facce della medesima medaglia. Ed anche in questo nostro tempo, disincantato e smarrito, Socrate ripete ad ogni uomo che non del corpo ci si deve occupare, ma dell’anima, perché al giusto, anche se costretto a morire per le sue idee, non può accadere nulla di male. La virtù greca ha il suo premio in se stessa, e Socrate è stato l’araldo di questa virtù.
Per lui conoscere il bene equivaleva a compierlo: inesplorate, almeno fino al avvento del Cristianesimo, resteranno le abissali profondità della volontà – capace di intuire quale sia la scelta migliore, ma non per questo di metterla in pratica.
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