Molti degli studenti che, ammaliati dal frenetico affaccendarsi di camici bianchi di cui pullulano gli schermi televisivi intendono frequentare la facoltà di medicina, ignorano almeno due cose: che quel prodigarsi frettoloso ha poco a che fare con la professione verso cui si stanno incamminando, e che la branca dello scibile scelta sgorga da quello stesso razionalismo da cui nacque il sapere filosofico.
Due opzioni che oggi tendiamo a considerare antitetiche furono in realtà gemelle perché con lo spostamento dell’interesse dall’indagine sulla natura a quella sull’uomo, avvenuto nell’Atene del IV secolo a.C., dai sofisti e, in altra prospettiva da Socrate, si rese possibile anche un’analisi “scientifica” sulle alterazioni del equilibrio psicofisico che, opportunamente classificate, verranno definite malattie.
Come tutti i momenti fondamentali dell’esperienza antropologica, anche il soffrire venne affidato, almeno inizialmente, all’evocativa narrazione del mito secondo cui fu il centauro Chirone a insegnare agli uomini l’arte di curare i mali, trasferendola poi al figlio Asclepio. Questi, definito come salvatore, verrà iconograficamente rappresentato sotto forma di scorpione o serpente.
Un’arte, quella di guarire, tramandata di padre in figlio, caratteristica questa che resterà inalterata anche quando, con Ippocrate (460-370 a.C.), i medici si scinderanno nettamente dai sacerdoti guaritori, entrando nell’orbita del razionalismo filosofico ellenico.
Opportunamente formati i professionisti “laici” iniziarono a far sorgere scuole accanto ai templi degli asclepiadi, che consentivano loro di entrare in contatto con il maggior numero e la maggior varietà di casi patologici: non però per affidare le “cure” a rituali magico religiosi, ma per classificare le varie condizioni sperimentando diversi possibili rimedi.
Tra tali sanitari si distinse Ippocrate, autore anche di quel giuramento che, oggi ingiustamente accusato di paternalismo, viene ancora proferito dai sanitari prima di intraprendere la loro professione. Un testo pregno di umanità che, lungi dal limitarsi a pur se stupefacenti competenze tecniche, individua la statura etica di chi esercita l’arte della medicina.
Dal punto di vista specialistico Ippocrate si muove già in una prospettiva olistica: Nell’anamnesi inquadra l’intera vita del paziente convinto che l’ambiente in cui dimora, e persino le istituzioni politiche, possano avere un effetto, benefico o deleterio sulla sua salute.
Per meglio comprendere la radicale differenza tra il paradigma ippocratico e gli antecedenti guaritori basterà aprire l’opera “sul male sacro” attribuita, come non poche altre, all’insigne medico.
Gli asclepiadi definivano l’epilessia male sacro a causa delle sue stupefacenti manifestazioni, e , propendendo per un’origine divina, affidavano la ”cura” a rituali magici.
Ippocrate però notò che anche altre patologie come alcuni stati febbrili o lo stesso sonnanbulismo davano luogo a eventi altrettanto sbalorditivi.
Ancor più profonda è, se possibile, l’obiezione ippocratica a chi si affidava ai rituali dei guaritori: il divino non contamina l’uomo, ma, al limite, lo purifica ed appare contraddittorio l’atteggiamento di chi con rimedi umani vorrebbe guarire malattie di cui afferma la preternaturalità riservandosi la facoltà di influire addirittura sugli dèi. Ippocrate, proprio perché non era ateo, ma rispettoso delle divinità, riteneva di non poter condizionare il loro operato.
Secondo il suo potente razionalismo l’epilessia era causata da un alterazione del cervello tra le componenti del secco e dell’umido, del freddo e del caldo. Tali influssi, per il grande medico vanno riequilibrati, ripristinando lo stato antecedente al manifestarsi della sintomatologia che l’ignoranza rende ancor più strabiliante.
L’epilessia è così circoscritta entro cause naturali tanto da poter essere guarita dall’uomo.
A differenza dei sofisti e in consonanza con la migliore lezione socratica, Ippocrate però non fu araldo di una potenza illimitata dell’essere umano, come mostra questa frase attribuitagli da molti studiosi:
Tra queste secche l’uomo che esercita l’arte medica è chiamato a districarsi, secondo alcune direttrici etiche riassunte in questa espressione tratta dal giuramento:
Mi varrò del regime per aiutare i malati, secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno o ingiustizia. Non darò a nessuno alcun farmaco mortale, neppure se richiestone, ne mai proporrò un tale consiglio… Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte.
Condivido del tutto. Sono un medico ritirato dal lavoro e ho percorso una strada lunga, quasi senza interruzione, e difficile, a iniziare da apprendista operaio, allievo infermiere, essendo la mia famiglia di povere condizioni economiche. Posso quindi affermare di conoscere bene ciò che si agita al di là della scrivania del medico (e delle istituzioni) e al di qua, ossia il contesto del malato (e del suo contesto sociale).
Quella posizione mi ha permesso – ringrazio il Signore e Sua Madre, la Madre della Chiesa, avendola generata ai piedi della Croce – di contemplare, agire, soffrire e di ringraziare per tutti i malati, e tante persone che ho potuto incontrare, portare alla fede, o in ogni caso di portare nella preghiera di intercessione.
Adesso ho scelto volontariamente di rinunciare a uno stipendio elevato, la pensione e al posto fisso perché mi sembra di aver colto che siamo giunti davvero a un punto di svolta, almeno qui in occidente.
L’etica ippocratica, e in generale la cultura aristotelico tomista medievale che l’ha sposata, dopo l’impatto perdente con la seconda cultura – quella moderna, matematica, kantiana, tecnocratica, rapace e gnostica, fatta propria dalle democrazie liberali – sopravvive forse solo purtroppo negli ospedali cattolici.
Ho la prova provata che anche in Italia ormai si pratica l’eutanasia, senza il consenso dei familiari. Mi addolora, ma non mi stupisce. Invito il lettore a leggere il discorso di Madre Teresa – che ho avuto a suo tempo, nel lontano 1994, indegnamente, la grazia di incontrare – all’accademia di Stoccolma per il conferimento del premio Nobel, dove pronuncia un argomento inconfutabile contro l’aborto.
La terza cultura in cui viviamo ha ormai abbandonato anche il miraggio di un discorso di etica razionale immanente, ovviamente, sia dal versante liberale o Gentiliano che post marxista o Gramsciano.
Se il realismo diceva “existo ergo sum”, la modernità nominalista moderata prendeva per slogan il “cogito ergo sum” cartesiano.
“Il Verbo, Logos si è fatto carne”, l’Incarnazione redentrice è il secondo dogma fondamentale cristiano; “l’ idea, il razionale è carne, reale” è il dogma fondamentale della modernità.
La cultura dominante odierna ha fatto un passo ulteriore, quello decostruzionista e nominalista radicale, anti logocentrico, anti logico e “creazionista dei diritti”. Il suo slogan è “volo ergo sum”. E’ in ultima analisi, una cultura anticristica, gnostica e animalista simultaneamente. Ignora il corpo, da una parte, e prende l’evoluzionismo come dogma indiscusso dall’altro.
Facile capire quali sono state ( e saranno) le conseguenze in ambito medico, quelle della tecnocrazia, degli espedienti, dei surrogati del trans umanesimo: Pillola, FIVET, embrioni conservati, maternità surrogata, clonazione, screening e manipolazioni genetiche, l’olocausto dell’aborto, il commercio di organi, pezzi di ricambio degli organi, chimere, impianti endocranici, DBS, Ritalin per i bambini, Viagra per i vecchierelli, Prozac per tutti. Per uscire da questa valle di lacrime – esclusi gli apprendisti stregoni della Silicon Valley, che cercano l’immortalità ingegnerizzando il genoma dell’Ameba -un bonus di morfina,
E’ un quadro tragico. Ma sono un mariano, un devoto di Fatima, Garabandal, Medjugorie.ì e della Divina Volontà.
Teologicamente infatti tutto è drammaticamente semplice: oggi è scomparso Dio dall’orizzonte pubblico, dai media, dalle fabbriche, dalla scuola, come pure il peccato. I giovani non sanno più cos’è il bene e il male, e la famiglia è stata distrutta. Nella mia Parrocchia metropolitana la frequenza domenicale è del 4%.
Ma la Regina della Pace ci invita alla preghiera di intercessione e al digiuno. Ella può salvarci dalla fine della civiltà. Alla fine il Suo Cuore immacolato trionferà. Di chi sarà il merito? Di Lei e nostro: non ha senso, infatti, dire che il bisturi ha salvato il malato, o che il chirurgo ha guarito il tumore. Entrambi, lo strumento e la causa prima sono gli artefici della salvezza, alleluia!
La ringrazio per le sue considerazioni. Effettivamente, anche in campo medico, sta prendendo il sopravvento una pericolosa tecnocrazia che perde di vista l’uomo come finalità intrinseca.