Un piccolo poeta vive in ciascuno di noi: non è certo capace di creare la bellezza, ma di goderne sì. È questa la lezione che possiamo trarre dall’estetica crociana che, sganciandosi dall’idea romantica di genio, illustra, grazie all’intuizione, il senso profondo della formula secondo cui “l’arte è ciò che tutti sanno cosa sia”.
Un motto che mi ha fatto tornare alla mente le esclamazioni di meraviglia che alcuni turisti orientali, forse ignari della sua multiforme simbologia, hanno liberato guardando la volta della Cappella Sistina. Il bello che per Croce non riguarda la natura ma solo l’arte, aveva ridestato quel piccolo pittore presente in loro permettendogli di entrare in un contatto, non didascalico, con Michelangelo.
L’arte per Croce non deve insegnare o indottrinare, diffondendo massime morali o dogmi religiosi: è, invece, pura intuizione apriorica della bellezza. Ed è per questo che Croce definì il Barocco, in cui l’esigenza edificante prende il sopravvento, un “brutto artistico”. Violando la rigida partizione neo-idealistica dello Spirito in cui non vi sono solo opposti da riassorbire in una sintesi finale, ma distinti che tali restano, il Barocco – manifesto della Riforma Cattolica – onera l’estetica di una funzione propria della logica.
Un atteggiamento questo da cui nessuna ideologia appare immune: la nozione gramsciana di “intellettuale collettivo” riferita al Partito Comunista incorre, pur se dalla sponda opposta, nel medesimo errore. Non meno rilevanti, soprattutto in un tempo come il nostro, che ipostatizza in un presentismo assoluto l’ondivaga fugacità dell’attimo, sono gli altri due “insegnamenti” del filosofo di Pescasseroli: la storia ci è sempre contemporanea, perché ogni evento anche remoto è rivissuto alla luce delle esigenze del presente; e, ancora, la storia è sempre necessariamente storia della libertà.
Pensiero ed azione si intrecciano così in una biografia segnata da due tragedie: quella famigliare conseguente al terremoto di Casamicciola del 1883, in cui perse il padre, la madre e la sorella, rimanendo per ore egli stesso sepolto dalle macerie; e quella nazionale del Fascismo di cui vide gli errori e che, a costo di rompere l’amicizia con Giovanni Gentile, avversò – come testimonia anche il manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925.
Ultimo araldo del risorgimento ottocentesco vissuto, almeno in parte, in quello che poi sarà definito “il secolo breve”, l’autore del “breviario di estetica” si oppose al regime mussoliniano da una posizione classicamente liberale, dopo una fugace adesione al marxismo, mediata da Antonio Labriola, cui si deve la scoperta di Hegel e, forse più ancora, la passione per la politica.
Ma è indubbiamente la storia a sussumere per il filosofo idealista l’errare dello spirito umano. E proprio in questo ramo dello scibile non pochi luoghi comuni vengono scalfiti, nonostante oggi, forse a causa dell’affievolirsi dell’egemonia crociana, li vediamo riaffiorare.
Al pari dell’arte, la storia non insegna nulla: ed è per questo che il suo tribunale non biasima né loda, non condanna ne assolve, ma conosce e comprende. Le passioni scuotono la cronaca politica, ma, in sede storica, i personaggi non debbono essere giudicati una seconda volta.
Lungi dal sopraggiungere dall’esterno, questa disciplina vive in noi che siamo, appunto, un microcosmo; non però in senso naturalistico, come avrebbero voluto gli intellettuali rinascimentali, ma in quanto sussumiamo le tappe percorse dallo Spirito nel suo palesarsi diacronico.
In una simile prospettiva, anche le numerose ricostruzioni controfattuali che pretendono di mutare il divenire, cambiando ipoteticamente il corso degli eventi – se Mussolini non avesse fatto entrare l’Italia in guerra, se Napoleone non avesse commesso l’errore di invadere la Russia… – appaiono, agli occhi di Croce, insensate perché negano il carattere necessario del palesarsi dello Spirito. Si tratta di una necessità che, però, va vista in una luce nuova: infatti se non è evidentemente quella del determinismo materialistico di ascendenza positivistica, non è neppure quella della classica visione provvidenziale della storia di derivazione agostiniana, e più recentemente manzoniana, secondo cui sarebbe Dio a condurre le umane vicende.
Il divenire infatti, vichianamente ideale ed eterno, è per Croce radicalmente affidato all’immanenza. Ed è appunto per questo che il suo idealismo può giustamente essere definito come uno storicismo assoluto.
In un’epoca in cui ogni evento viene acriticamente assimilato al presente, come se necessariamente lo prefigurasse, occorre recuperare questo storicismo che, inteso alla stregua di uno spessore temporale ci situa diacronicamente rispetto al fatto studiato. E in tal modo ci permette di meglio comprendere le stesse vicende che traversiamo, le quali, come ogni accadimento, un giorno diverranno storia.
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