Una salutare provocazione da cui lasciarsi attraversare, anche se alcune delle sue asserzioni, nella loro assolutezza unilaterale, non possono essere condivise fino in fondo. È questo il pensiero di Michael Novak – autore statunitense vissuto nella seconda metà del secolo XX – che sgorga da un’apparente contraddizione su cui è opportuno riflettere.
I teologi hanno difeso i più disparati sistemi economici: dal corporativismo al socialismo, dal feudalesimo, al mercantilismo, fino alla società sorta con la rivoluzione industriale; ma nessuno ha mai sostenuto il capitalismo democratico, in cui gli ecclesiastici hanno visto solo individualismo, edonismo, materialismo ai quali hanno opposto il personalismo, il comunitarismo e uno spiritualismo disincarnato.
Capace di fiorire, o comunque di sopravvivere, con qualunque sistema economico, il Cristianesimo, come il Giudaismo, non ne canonizza nessuno, trovandoli tutti manchevoli rispetto a quel Regno d Dio che ogni fedele è chiamato a costruire, non solo dal punto di vista individuale – salvando la sua anima –, ma anche da quello sociale: per questo Agostino voleva che la città di Dio si scorgesse in lontananza anche in quella dell’uomo.
Lungi dall’astrarci dalla vicenda temporale, è l’incarnazione a farci attenti alla storia, a quell’aiuola umana che, irrorata dalla rugiada, è sempre minacciata dall’incombente siccità.
Al fragore dell’utopismo il filosofo statunitense contrappone il silente lavorio della speranza: per questo Novak, mentre rimprovera ai teologi della liberazione di aver assolutizzato la visione marxista del mondo, intenderebbe, almeno dal punto di vista teorico, non incorrere nel medesimo errore con quella capitalistica.
Se i limiti, i vizi, la stessa perfettibilità di questo modello sociale lo preservano dall’utopismo proprio di chi intende realizzare un cosmo idilliaco, la caritas ne rappresenta il suo propulsore segreto che si afferma più liberamente in un’economia di mercato, nel rispetto della persona, nella creazione di comunità tanto libere da valorizzare una competizione sana. Comunità cui gli uomini spontaneamente appartengono, creando, diffondendo, inventando ricchezza.
IL sistema americano, in cui è fiorito il capitalismo democratico, offre ai popoli una saggezza di inestimabile valore che non può essere affidata a una mera spinta emotiva.
Per ciò, prosegue il filosofo statunitense, occorre radicare il primato di questa arena di libertà diffusasi poi nell’Europa occidentale, in un orizzonte teologico, mostrando come essa, pur se senza pretese confessionali, sia permeata da alcune idee proprie della rivelazione biblica.
Nella sua opera più nota, tradotta in italiano con il titolo: “lo spirito del capitalismo democratico e il Cristianesimo”, Novak tenta di operare un simile radicamento alternando a spunti originali proprio quella canonizzazione ideologica dell’economia di mercato che diceva di voler rifuggire.
Così dalla Trinità apprendiamo l’esistenza di una comunità in cui l’individualità non sia soffocata dalla pervasiva onnipresenza dello Stato, come accade nei sistemi del socialismo reale e, certo in forma più temperata, in quelli di ispirazione socialdemocratica. Famiglie, associazioni, sindacati, chiese prosperano solo in una società che, in senso ampio, si potrebbe definire liberale, offrendo così al singolo una infinita gamma di possibilità di realizzazione in un nesso, che a Novak appare inscindibile con l’economia di mercato.
E proprio perché la comunità non è un paradiso, la Trinità è temperata dall’Incarnazione che ci insegna a essere umili, a pensare realisticamente, rifiutando il pernicioso fascino dell’utopia. Si tratta invece di elaborare l’orizzonte del solo Dio che abbia accettato di essere ucciso dallo stato: la passione gli ha così consentito di sperimentare sia i limiti dell’umano a cominciare dal tradimento, sia gli infiniti rivoli in cui fluisce l’amore. Giuda da un lato e le pie donne dall’altro divengono, in questa prospettiva, emblemi di due possibili esiti della libertà: quello di chi commercia i talenti ricevuti, e quello di chi li sperpera o li sotterra.
Poiché, riprendendo una metafora evangelica, nel campo della storia il grano e la zizzania crescono insieme, la vita è lotta: contro noi stessi, gli altri, il male che è nel mondo.
Per questo anche la competizione va accolta positivamente: è un cum-petere, un cercare insieme, pur se in modo agonistico. Occorre combattere per realizzare le proprie potenzialità e avere rivali forti significa godere di potenti stimoli.
L’uomo non sarà mai perfettamente virtuoso, lo attesta il peccato originale che ci rammenta anche la perfettibilità di ogni costruzione sociale. Questo è il perno, invero non saldissimo, dell’argomentare di Novak: il sistema capitalistico non è privo di vizi, ma gli altri sono peggiori. Ed è in tale prospettiva che il filosofo ne tesse le lodi: è questo modello sociale che ha prolungato la durata della vita umana, accrescendone le possibilità perché la persona, essendo il fondamento della comunità, può perseguire la felicità concretamente raggiungibile.
Se da un lato la riflessione di Novak parrebbe depotenziare il cristianesimo, affiovolendone la carica utopica, tesa cioè a trasformare il mondo, dall’altro essa appare stimolante, proprio perché mette in luce un’interpretazione del messaggio biblico che, in tempi di populismo ecclesiale imperante, rischiamo di trascurare.
Di’ cosa ne pensi