Dio secondo Anselmo, Gaunilone… e il povero scemo

Partire dall’essere di Dio per mostrarne, infallibilmente, la necessaria esistenza. Attorno all’anno mille un illustre figlio di San Benedetto peregrinava per l’Europa cristiana con questo sogno: trovare un argomento, certo e facile , cui nessuno, neanche l’ateo potesse resistere. Nutrì il suo sogno nella preghiera, chiedendo a quel Dio in cui già credeva e che già amava, di fornirgli la forza di cercare e trovare una simile prova, perché Anselmo, monaco e teologo, non pensava per il gusto di pensare, ma per confermare gli altri in una fede più solida. E per realizzare il suo sogno, dopo aver elaborato ben quattro argomenti che, partendo dall’esperienza sensibile, risalissero gradualmente fino all’Onnipotente, decise di percorrere la via inversa e scrisse la sua principale opera teologica il Proslogion.

Convincere l’ateo, una sfida suprema e per questo affascinante in cui, in certo senso, la Sacra Scrittura era fuori gioco, ma restava aperta un’altra possibilità: usare quella ragione che, a torto, qualcuno definisce come esclusiva prerogativa della modernità. Una modernità che, fino alle ultime propaggini della logica contemporanea, proprio su quell’argomento si sarebbe divisa in entusiaste accettazioni, recise repulsioni, infinite riformulazioni: sì perché il problema filosofico di Dio rappresenta una questione capitale, distinta naturalmente dalle scelte personali di ciascuno. E questo è tanto più vero se si riflette sul fatto che pensatori teisti come Tommaso e Pascal hanno depotenziato o rifiutato la prova ontologica di Anselmo, mentre filosofi che assegnano a Dio un ruolo oggettivamente più marginale, come Cartesio e Gödel, l’hanno accettata.

Anche per ricusare l’esistenza dell’Altissimo – la sua essenza può essere conosciuta solo grazie alla rivelazione – l’ateo deve averne un’idea, come di un essere di cui non si può pensare nulla di più grande. Ma, prosegue il monaco, poiché ciò che esiste anche nella realtà è più grande di ciò che alberga unicamente nel pensiero, Dio deve necessariamente esistere se, ab origine, era stato postulato come ciò di cui non si può concepire il maggiore.

Un esempio tratto dalle stesse opere di Anselmo potrà farci capire meglio questa intricata questione: un quadro, ancor prima di essere dipinto, è certo presente nella mente del pittore. Ma, una volta che sia stato realizzato, esso è più grande, più bello, più perfetto, dell’idea che pure l’artista possedeva.

Esempio chiarificatore, ma non totalmente esaustivo perché, se l’ateo che Anselmo avrebbe voluto convincere non proferì motto, fu sorprendentemente un suo confratello, Gaunilone, a prendere le di lui difese. Un colpo di scena che rende anche l’opera di questo monaco interessante perché, variamente ripresa nel corso dei secoli, smentisce l’idea di quel medioevo oscurantista ed intollerante che tanto è piaciuta a certa storiografia illuminista. Due credenti, due monaci, dissentono non su una questione di poco momento, ma sul modo di provare l’esistenza di Dio e, lungi dallo scomunicarsi reciprocamente, discutono esponendo ciascuno la sua tesi. E quella di Gaunilone può esser riassunta più o meno così: noi quando sogniamo, ma anche mentre siamo desti, possiamo pensare a cose inesistenti, come, ad esempio, i centauri. Quindi il fatto che noi pensiamo una realtà non ne implica necessariamente l’esistenza. Come già i sofisti, anche Gaunilone disgiunge il piano dell’essere da quello del pensiero, rimandando la palla nel campo dell’avversario con un argomento che, proprio per il suo essere tratto dal senso comune, poteva convincere chiunque, depotenziando a priori ogni possibile replica.

Ma l’autore del Proslogion non si fece scoraggiare: riconobbe certo la validità dell’argomentazione del suo confratello per qualsiasi realtà finita la cui esistenza è pur sempre relativa, ma la negò recisamente nel caso di Dio, per cui solo vale il suo argomentare.

Se la principale obbiezione all’ipotesi anselmiana è quella di circolo vizioso, perché, secondo i suoi detrattori, si presupporrebbe in anticipo l’esistenza di quanto si vuole dimostrare, non meno stringenti sono le ragioni di chi milita a favore della validità di questa prova. In certo senso, infatti, il monaco benedettino fu il primo degli scolastici, non affidando più ai soli argomenti scritturistici, di cui (sia chiaro) riconosceva la validità, l’onere di provare l’esistenza di Dio. Pur se debole, quasi smarrita ne lo gran mar dell’essere, la navicela dell’umano ingegno può, sostenuta dalla grazia, parlare dell’esistenza di Dio, mentre attende di contemplarlo nell’oceano della visione beatifica. 

Informazioni su Alessio Conti 33 articoli
Nato a Frascati nel 1974, Alessio Conti è attualmente docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico statale Bruno Touschek di Grottaferrata. Dottore di ricerca in discipline storico filosofiche, ha pubblicato con l'editrice Taυ due libri (Fiat lux. Piccolo trattato di teologia della luce [2019], e Storia della mia vista [2020]). Già docente di religione cattolica per la Diocesi di Roma, è attivo nel mondo ecclesiale all'interno dell'Azione Cattolica Italiana di cui è responsabile parrocchiale del gruppo adulti. Persona non vedente dalla nascita, vive la sua condizione filtrandola grazie a due lenti, quella dello studio, e quella di un'ironia garbata e mordace, che lo porta a vivere, e a far vivere, eventi e situazioni in modo originale.

2 commenti

  1. Ancora grazie Prof per i suoi insights.
    Ecco, per esempio: “Tommaso e Pascal hanno depotenziato o rifiutato la prova ontologica di Anselmo, mentre filosofi che assegnano a Dio un ruolo oggettivamente più marginale, come Cartesio e Gödel, l’hanno accettata”.
    Il modo serio di porsi il problema dell’esistenza di Dio, dice un teologo a me caro, non è semplicemente quello se abbiamo o non abbiamo un’idea innata di Dio ed eventualmente, come fece Sant’Anselmo, affermare che Dio esiste perché abbiamo l’idea dell’ “id quo nihil maius cogitari potest”.
    Il problema è se esiste un Dio creatore. La massima potenza della ragione, il suo bisogno più profondo, la sua esigenza più radicale si manifestano quando la ragione affronta il problema della creazione.
    Perchè le cose esistono piuttosto che non esistere, dato che potrebbero non esistere? Chi le fa esistere? Come dev’essere il creatore della loro esistenza? Questo è il problema di Dio posto nei termini giusti, in maniera veramente seria e non come se si trattasse di un problema di idee. È un problema di realtà, non di idee.
    Con la filosofia di Kant vediamo Dio diventare un’idea.
    Il fatto che Anselmo concepisca Dio come “id quo nihil maius cogitari potest” a Kant va benissimo a patto che non lo si concepisca come ente extramentale ma come ente ideale. Di fatti questo concetto di Dio diventerà comune a tutti gli idealisti da Hegel a Gentile a Bontadini.

    • In questo commento su Anselmo vengono tirate in ballo varie questioni. Intanto direi che il termine “Dio” non può essere usato attribuendogli lo stesso senso quando parliamo di Anselmo di Kant o di Hegel. Neppure si può pretendere che questi ultimi ripetano ciò che ha già detto Anselmo. Ciascuno dalla sua prospettiva rielabora quanto altri anno scritto e detto. Anselmo come ogni medioevale credeva nella creazione che è il proprio della rivelazione cristiana e concepiva “Dio” come ente reale. Però, volendo provarne l’esistenza a chi come un ateo non ammette i dogmi del cristianesimo, non avrebbe avuto senso fare leva su quei dogmi che, personalmente lui amava e riveriva. Poi come di ogni cosa anche della prova ontologica sono state offerte varie letture.

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