La sola alternativa alla filosofia è il silenzio perché, anche chi ne volesse negare il valore sarebbe comunque costretto, se intendesse sostenere pubblicamente le sue ragioni, a far uso dell’argomentazione. Costui si soffermerà sull’inutilità di questa scienza, e quindi, per il solo fatto di servirsene, ne certificherà dialetticamente l’imprescindibilità.
Sempre più raramente le classiche parole di Aristotele risuonano nelle discussioni in cui ci troviamo invischiati. E ciò accade perché nei nostri schemi tutto serve ad altro: il liceo è necessario per frequentare con profitto l’università e questa è utile a conseguire un’occupazione, socialmente considerata e, se possibile, ben remunerata. Aspetti questi in sé non disprezzabili, ma un giovane che volesse esercitare il tanto decantato spirito critico dovrebbe chiedersi “possibile che tutto finisca qui?”. Ancora oggi la filosofia risponde negativamente a questo quesito, completando l’interrogativo sull’utilità con altre suggestioni.
“A cosa serve?” È certo un interrogativo cruciale che, però, se assolutizzato, porterebbe a depotenziare l’esperienza estetica, l’ozio letterario, la teoria filosofica, apparentemente inadatte ad entrare nello schema dell’utilità immediata. E così tornano alla mente le altre parole dello Stagirita, scolpite nella metafisica secondo cui «tutte le scienze saranno più necessarie di questa, ma superiore a questa nessuna».
La filosofia non edifica strade, non unisce con ponti le sponde dei fiumi, non costruisce acquedotti od altri artefatti: la paideia forma cittadini, uomini temprati dalla domanda. Persone libere perché forgiate alla scuola del dubbio che non si compiace di se medesimo ma, come avverrà in Cartesio, è tappa verso una verità meglio fondata. Ed al sempre risorgente scetticismo, secondo cui il vero non sarebbe attingibile dall’uomo, quandanche esistesse, il filosofo risponde che lo scettico dice, a suo modo, la verità che il vero non esiste: perché se non fosse così anche lui sarebbe costretto al silenzio.
La filosofia educa al confronto, allontana dal giudizio di valore facile e a buon mercato, insegna a storicizzare e a contestualizzare. Un sapere nato in Grecia, da cui, scindendosene progressivamente, sbocceranno in età antica la medicina ippocratica e, successivamente, la psicologia. Ma l’inesausta creatività di questo ramo dello scibile non si ferma qui se, come ha giustamente sottolineato il filosofo Giovanni Reale, la stessa rivoluzione scientifica sorge da presupposti teoretici sulla soglia della modernità.
Ma donde la filosofia riceve questa carica, come può rappresentare quell’inesausto ed inappagabile amore di saggezza, che accende la voce ed illumina il volto di alcuni giovani, quando la incontrano? Sintetizzando userei un’idea di Hegel: il vero è l’intero. Occorrono certo le domande particolari, servono scienze che interroghino il reale dal punto di vista del corpo – fisica –, del numero – matematica –, della materia – chimica –. Ma è ancor più necessaria, e la cultura parcellizzata di oggi non ci aiuta a capirlo, la domanda sull’intero, sul reale in quanto tale, senza ulteriori specificazioni. Una domanda che rompe il nostro respiro, conducendoci verso un culmine da cui elaborare teorie che non spiegheranno tutto, ma evitano quell’idolatria del frammento in cui inconsapevolmente abitiamo.
Se qualcuno mi chiedesse cosa manca alla scuola di oggi, tutta presa a rincorrere questa e quella attività, direi che latita la domanda sull’intero, quel gusto di sapere non per fare qualcosa, ma per conoscere. Perché conoscendo si diviene liberi di fare, di creare, di agire. E se lo Stagirita definiva gli schiavi come oggetti parlanti; oggi non pochi sono servi, ma a differenza degli antichi, non lo sanno. Asserviti a una mentalità in cui nulla vale perché è bello, buono, vero; ma tutto è competenza, scambiabile nel orizzonte, unico ed ultimo, del mercato.
Da antica prof. [non posso fare altro che dire: GRAZIE! e
FINALMENTE!