Era necessario in quell’Europa idealistica in cui la realtà appariva interamente razionale, spezzare il cuore di un poeta, per far risorgere il cristianesimo, oltre la sua negazione istituzionale. Irridere la filosofia dei professori, per far rivivere, al di la del romanticismo, l’ironia socratica. Burlarsi dell’astratta conciliazione del sistema Hegeliano, per scoprire, grazie a una donna la cui perdita, nonostante la rinuncia al matrimonio è solo apparente, il singolo in una vita che l’infinito novero delle possibilità renderebbe angosciosa e disperante, se a lenirla non vi fosse il paradossale balsamo della fede.
Il singolo, Dio ed il loro rapporto: è questo il tema di quell’autobiografia teologica che è il pensiero di Søren Kierkegård. Una riflessione che ci avvince: non tanto per le pur pregevoli letture che ne ha dato l’esistenzialismo del secolo passato, quanto perché oltre i concordismi, anche religiosi, di facciata, ci parla del paradosso di essere, come uomini, dilaniati da una ”spina nella carne”, provocando così un dolore che nel suo stesso esondare è domanda di quel salto mortale capace di liberare e di liberarci.
Un salto che però esige lo smascheramento della più nascosta tra tutte le eresie: assente dai manuali di teologia, taciuta nell’omiletica, consiste nel giocare al cristianesimo, come se questo fosse conciliabile con la tranquilla esistenza di un borghese qualunque. Divenire pastore, sposarsi con una donna che pure amava gli parevano meri lenitivi – come emerge dalle intense, dolenti, pagine del diario, vera cifra della sua esistenza. Ma “giocare al cristianesimo” è possibile anche per una chiesa che, dimentica di sorgere dallo scandalo della croce, si compiace di sé stessa in mille iniziative caritatevoli, lusingando così anche quel mondo che dovrebbe invece convertire.
A questa chiesa, con il suo stile aforisticamente ironico, sembra parlare il filosofo danese:
Gli uomini vogliono vivere tranquilli e attraversare felicemente il mondo, questa è la ragione per cui tutta la cristianità è un travestimento, ma il cristianesimo non esiste affatto.
Una fede non intenta tanto a provare razionalmente Dio, quanto a viverlo nel rischio, nella scelta, nel paradossale atteggiamento di Abramo che, rompendo gli stessi paradigmi etici, è disposto a sacrificare all’unico padre persino suo figlio. Quello di Kierkegård è un cristianesimo che conosce una dialettica binaria, in cui le possibilità si elidono a vicenda, fino ad annullarsi nell’assoluta libertà della fede.
E se la stessa esistenza va letta come possibilità, e l’incessante alternarsi delle opzioni genera l’angoscia della scelta, occorre fidarsi di Cristo, possibilità infinita, irruzione dell’eterno nel tempo, rendendosi a lui contemporanei in quel rapporto unico ed irripetibile che ciascuno di noi è, anche se non lo sa.
Quando posso, seguo con interesse e con ammirazione le riflessioni di Alessio su questioni politiche, filosofiche e teologiche. Oggi sono riuscito a leggere fino in fondo il suo commento di S. Agostino con ampia citazione del brano in cui presenta il superamento della visione pagana della divinità ridotta a natura, personificata nella mitologia greco-romana. Mi ha fatto tornare alla memoria una frase che la prof Sofia Vanni Rovigo della Cattolica, con la quale mi sono laureato nel 1958, che argomentava citando in latino S.Agostino: Ecce sunt coelum et terra: clamant quod facta sint, mutantur enim atque variantur” Il che ricordava la dimostrazione dell’esistenza di Dio di S. Tommaso: “ prima et manifestior via sumitur ex parte motus…