«Non sono io Dio»: il fatale esodo dal paganesimo al monoteismo

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio. E che cos’è? L’ho chiesto alla terra, ed essa mi ha risposto: «Non sono io»; e ogni cosa che si trova su di essa ha ripetuto la medesima confessione. L’ho chiesto al mare, agli abissi e ai rettili con anime viventi e mi hanno risposto: «Non siamo il tuo Dio; cerca al di sopra di noi». L’ho chiesto ai venti che soffiano, e tutta l’atmosfera con i suoi abitanti mi ha risposto: «Anassimene si inganna: io non sono Dio». L’ho chiesto al cielo, al sole, alla luna, alle stelle: «Neanche noi siamo il Dio che tu cerchi», rispondono. L’ho chiesto a tutti questi esseri che stanno attorno al mio corpo: «Parlatemi del mio Dio; poiché voi non lo siete, ditemi qualche cosa di lui». Ed essi acclamarono a gran voce: È lui che ha fatto noi”.

Minacciosa o minacciata, ma pursempre e magnifica, nutrice, ma talora matrigna la natura si schiude alla contemplazione del cuore e del intelletto ancor prima che a quella dei sensi. È in questo dittico sospeso tra filosofia e dogmatica, poesia e retorica che Agostino immagina un suggestivo colloquio con ogni elemento del cosmo per sentirsi dire che è una realtà creata, certo molto buona, ma incapace di rappresentare il bene assoluto. L’universo non vi appare come indistinta congerie, caotica ed inerte materia da cui in un dopo non solo cronologico sarebbe emerso l’ordine. Ogni elemento dialoga nella sua irriducibile unicità, recando con sé le sue irripetibili caratteristiche. Ma la risposta della natura è corale: «Noi non siamo il dio che cerchi».

Sperato come Dio dagli occhi della fede, l’Altissimo sarà certo contemplato da quelli della visione: ma fino a quando siamo in questo mondo troppe lenti distorcono il nostro sguardo. Chi fosse dotato di armi retoriche più acuminate delle mie potrebbe ardire una riscrittura del passo delle confessioni imperniata sugli attuali valori. In una simile finzione ogni realtà interrogata risponderebbe “sì, io sono Dio” e cercherebbe di spodestare le altre. E se per un attimo uscissimo dall’orizzonte pur ampio variegato e magnifico della natura, e comprendessimo in questa metaforica riscrittura anche idoli come la nazione, la classe, la scienza, lo stesso fanatismo religioso, potremmo forse comprendere da un lato il bisogno di assoluto, dall’altro l’incapacità di ogni realtà creata ad inverarlo.

Quello di Agostino però non è un Dio qualunque: è il Dio di Gesù Cristo, uno e unico, che spostando l’asse della speculazione filosofica dal cosmocentrismo ellenico, lascia baluginare l’orizzonte antropocentrico. In questo nuovo quadro interpretativo la terra e gli astri certo non sono dio, ma ne recano le vestigia: nel vorticoso soffio dei venti, nell’incessante moto delle maree, nel vivido brillare del sole, nel pallido tacere della luna: in tutto questo, oltre tutto questo, la spia estetica fa veleggiare la navicella dell’umano ingegno in un più vasto pelago.

Oltre i deserti del cielo sono quelli dell’anima a rispondere all’inquieto Agostino: supera te stesso, trascenditi, e troverai quel latte che, infante, succhiasti dal seno di tua madre. Parole struggenti che nella via pulchritudinis, universale e troppo poco esplorato luogo teologico, ci fanno accedere alla negletta radicalità della rivoluzione cristiana. Riscoprire il monoteismo, a torto tacciato come veicolo di intolleranza, per riparametrare dalla sua altezza, tutto ciò che dio non è.

La natura è certo grande ed il mondo greco aveva ragione a divinizzarla, ma più mirabile è l’uomo che alla natura pone domande, trascendendone le risposte. Fatto a immagine e somiglianza di Dio, egli deve avvicinarsi all’altissimo, operando la sua volontà, custodendo e coltivando il creato, non obliando la sua caratteristica di avvolgente domanda, di cui in certo senso anche noi siamo parte. Una parte che però a differenza del sole e dei flutti, inconsapevolmente splendidi, sa di essere vocata alla custodia della bellezza e questo suo sapere la rende, anche davanti a Dio, più responsabile.

Così mentre la questione ecologica urge, è l’africano Agostino nel suo bel latino, a rammentare alla vecchia Europa che un Cristiano non è un panteista: non divinizza la natura. Ne vede la bellezza, certo, ha il dovere di preservarla, alleandosi con chiunque voglia farlo, ma il modo più sano di proteggere il creato è non obliare la corale risposta che chiude il passo del padre latino “è lui che ha fatto noi”. Radicare ogni bellezza naturale nel suo essere creata non significa sminuirla, ma affermare quel assoluto limite, il solo capace e desideroso di compaginare il mosaico del mondo dalla cattedra scandalosa della Croce o da quella, non meno paradossale di un’inerme vagito. 

Informazioni su Alessio Conti 13 articoli
Nato a Frascati nel 1974, Alessio Conti è attualmente docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico statale Bruno Touschek di Grottaferrata. Dottore di ricerca in discipline storico filosofiche, ha pubblicato con l'editrice Taυ due libri (Fiat lux. Piccolo trattato di teologia della luce [2019], e Storia della mia vista [2020]). Già docente di religione cattolica per la Diocesi di Roma, è attivo nel mondo ecclesiale all'interno dell'Azione Cattolica Italiana di cui è responsabile parrocchiale del gruppo adulti. Persona non vedente dalla nascita, vive la sua condizione filtrandola grazie a due lenti, quella dello studio, e quella di un'ironia garbata e mordace, che lo porta a vivere, e a far vivere, eventi e situazioni in modo originale.

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