Lo spessore, con cui convivevano suoni di varia natura ed inconfondibili odori, era forse la caratteristica più saliente di quel mondo analogico in cui ogni cosa poteva essere attinta con il tatto.
Dalle banconote, il cui discreto fruscio si udiva quando il cassiere le contava; al gettone che in quello scrigno chiamato cabina telefonica , veniva fagocitato dal apparecchio con rapidità variabile a seconda della tipologia di chiamata, fino al libro le cui pagine, sfogliate rapidamente o adagio, lasciavano trapelare suoni di varia natura, specie a quell’orecchio che la cecità congenita rende più ricettivo.
Così assai diverso era il rumore delle sottili facciate di un manuale scolastico, rispetto a quello prodotto dai fogli spessi di un’enciclopedia.
La grammatura della carta, le fattezze della copertina e, soprattutto la rilegatura garantivano il pregio del volume. Un valore che ascendeva enormemente qualora fossero presenti tavole illustrate, spesso riconoscibili al tatto per una diversa fattezza delle pagine.
Lo stesso sovrapporsi di odore e sensazioni aptiche rendeva distinguibili i giornali: sottili erano i fogli dei quotidiani, patinati e lucidi quelli dei mensili.
I quattro sensi a mia disposizione potevano talora combinare queste percezioni: il denaro, al pari del libro aveva un odore, ancora percettibile portando una banconota alle narici o, nel caso dei testi, perlustrando a froge dilatate gli scaffali di qualche biblioteca. Odori e suoni capaci di ravvivare un mondo remoto, intriso non solo di oggetti, ma di ricordi, passioni, speranze, delusioni che la memoria sinestetica variamente assembla nella complessa relazione con le cose.
I tuoi occhi potevano essere aperti o chiusi, ma nel paradigma analogico quei fogli, quei suoni, quelle voci avvinti all’umano rappresentavano il solo accesso possibile alla comunicazione, al denaro, alla stessa scrittura. Un accesso che, dialetticamente, si tramutava in barriera, aguzzando l’ingegno dei mille espedienti cui si ricorreva per aggirarla negli angusti limiti del possibile.
Altre sensazioni sono invece irrimediabilmente relegate nell’antro del ricordo, perché scomparse dal nostro orizzonte: è questo il caso del suono della macchina da scrivere, che imprimeva caratteri su particolari fogli di carta.
Anche quando i rumori non sono scomparsi ma solo mutati, oggi assistiamo comunque ad un complessivo processo di dematerializzazione. Io scrivo su un computer: il picchiettio sulla tastiera appare più regolare e meno rumoroso, tanto da velocizzare la stessa digitazione. Ma anche in questo caso, il supporto materico tende a scomparire, e riaffiora solo se il testo è stampato. Lo stesso libro è ormai anche etereo, custodito in antri digitali e capace di divenire voce non più grazie ad un uomo che lo abbia inciso su una bobina, ma in virtù di un programma che automaticamente lo legge con tono monocorde. E se questo ha agevolato, dilatandola al infinito, la possibilità di consultare libri, rendendoci certamente più liberi; ha anche reso questa esperienza più anonima. Il lettore umano, infatti aveva un accento che ne tradiva la provenienza, poteva annoiarsi o commuoversi, lasciando trasparire questi stati d’animo nella sua interpretazione. La sua stessa voce assumeva tonalità variabili e anche le pause che seguivano la punteggiatura, risultavano meno asetticamente uguali rispetto a quelle di un programma che ad ogni virgola si auto impone una sosta la cui durata è prestabilita.
Quanto ai giornali, oggi telematicamente accessibili anche a chi non vede, in quella università popolare che è Radio Radicale, la cavernosa voce di Massimo Bordin li leggeva anche per me: ed udirlo era una sorta di rito laico, seguendo le irripetibili sinuosità del suo parlare, i sospiri, i silenzi, le geremiadi sullo spazio negato al partito di Marco Pannella. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: ma io vorrei riflettere piuttosto sulle implicazioni psicologiche di questa smaterializzazione. Torniamo al denaro: i soldi certo non sono tutto, ma dicono molto di noi. E se Aristotele riteneva assai infelice la vita di chi ammassava ricchezze, reputava però anche che la mancanza di mezzi materiali potesse intralciare il benessere di un greco di condizione libera.
Ma svelliamoci dallo Stagirita: oggi il contante sta andando in soffitta; spendiamo con carte di varia tipologia dalle prepagate, ai bancomat, fino a quelle di credito. Già questa è una prima dematerializzazione, acuita dal fatto che anche tali strumenti stanno divenendo virtuali. Così, essendo eterei , possono meglio “risiedere” su un telefono che a sua volta si muta in uno strumento di pagamento. E poiché lo smartphone è sempre con noi, artificiale protesi della nostra stessa esistenza, il risultato è che in modo irriflesso possiamo spendere sempre, anche se abbiamo dimenticato il portafoglio. E lo facciamo, almeno noi cavernicoli analogici, con maggiore leggerezza, quasi senza avvedercene, perché questo modo di pagare ha destrutturato il rito fatidico legato al acquisto: cercare il portamonete, aprirlo, reperire la banconota, consegnarla nella sua fisicità al cassiere, attendere resto e scontrino. In tutte queste fasi era ancora possibile un ripensamento, affidato alla liturgia del “ripasso domani”. Così, invece, la spesa è irriflessa, subitanea, certo può comparire un messaggio che avverte il suo autore, ma perso tra il poliforme lampeggiare delle notifiche questo non viene degnato di troppa attenzione, come lo sarebbe una fattura cartacea. E così sempre in bolletta ci stiamo noi, automi eteriamente paganti in quei templi del consumismo che chiamiamo centri commerciali.
Caro Alessio. Bellissima la riflessione sulla dematerializzazione. Mi hai…aperto gli occhi. Non ci pensavo più nel suo insieme. Aggiungerei anche un’altra cosa forse opposta: la materializzazione….dei sentimenti trasformati in sole emozioni sopratutto tra i giovanissimi.
Grazie ancora . Un abbraccio
Uno dei tuoi tantissimi amici
Mario