Se le campane improvvisamente tacessero, se i crocifissi fossero rimossi per legge dallo spazio pubblico, se persino le vetrate delle chiese non narrassero più episodi biblici, se le nostre città non fossero punteggiate da guglie e campanili, saremmo più liberi? Oggi in molti risponderebbero di sí, in nome del rispetto dovuto ad altre culture e religioni, oltre che della libertà di pensiero.
Come se una sfera pubblica in cui il simbolo venisse sostituito dalla sua assenza, fosse neutrale e non comunicasse l’irrilevanza del fatto Cristiano ridotto al rango di privata opinione. Un mondo non contrassegnato dal sacro sarebbe anche più tollerante, offrendo ad ogni persona la possibilità di scegliere se e come abitarlo. Veicolare queste opinioni alla stregua di incontrovertibili dati, di fatto, significa sottrarle al dibattito, e quindi allo sforzo di confrontarsi con chi eventualmente non le condividesse. Tacito e forse irriflesso presupposto di simili idee, è però quello di un individuo solo ed isolato, perché incapace sia di sentirsi parte di una vicenda storica che trascenda il suo punto di vista, sia, soprattutto, di cogliere la fenomenologia del fatto religioso. Un evento che si sedimenta nella storia, rivive nelle rappresentazioni artistiche, abita la fantasia di romanzieri e poeti nutrendo i sogni e le passioni di non pochi tra i loro personaggi.
È proprio una presenza tanto variegata a suscitare alcuni interrogativi non aggirabili. Cosa si cela dietro questa voglia di abradere? E ancora: perché il sintomo più evidente di una grave patologia del nostro tempo risiede nel fatto che gli avversari della Rivelazione non se ne servano più neppure come mero contrappunto dialettico, puntando invece su una sorta di damnatio memoriæ? Per dialettizare occorre pensare, spiegando le motivazioni per cui si rifiuta una certa posizione essendo comunque in grado di individuarne la spinta propulsiva. Marx, solo per fare un esempio, riconosce i meriti storici della borghesia e, in parte, anche quelli dello stesso Cristianesimo. Un simile atteggiamento non solo non gli impedisce di costruire il suo sistema, ma gli consente di fondarlo in una feconda dialettica con le teorie che avversa, persino nel suo stesso campo culturale.
Ma conoscere, distinguere, approfondire, sono attività dispendiose, richiedono tempo ed energie; pertanto sembra meglio elidere, far finta che l’altro non ci sia, proporre spazi bianchi e rivenderli come esperienza di libertà.
Antitetico a quello descritto fu, nella prima metà del secolo passato, l’atteggiamento del liberale Benedetto Croce, filosofo idealista che avrebbe risposto in modo recisamente negativo al quesito iniziale. Il suo testo “Perché non possiamo non dirci cristiani” individua nella Rivelazione una sorta di orizzonte ineludibile, proprio perché capace di divenire cultura. Uno spettro ideale che può certo essere rifiutato, ma il cui ruolo non va misconosciuto. Dal suo punto di vista, se è è possibile filosofare contro la fede, vincolando la propria riflessione all’immanenza, non si può più pensare come se la fede non avesse prodotto anche una civiltà.
È appena il caso di rilevare che, affermare l’inaggirabile dato storico secondo cui il Cristianesimo ci ha plasmati non significa aderire al messaggio del Nazareno, ma solo prendere atto di circostanze il cui oblio rappresenta indubbiamente un depauperamento da non pochi punti di vista. Ma torniamo, per comprendere questo capitale passaggio, ancora all’idealista Croce: la sua celeberrima distinzione tra poesia e non poesia lo portò certo a affermare la non poeticità di passi come la preghiera con cui si apre il XXXIII canto del Paradiso, senza però sminuire la rilevanza culturale della Rivelazione Cristiana.
Pur riconoscendone il valore, infatti, ritenne schiettamente poetici Episodi come quello di Paolo e Francesca, in cui l’arte brillava nella sua assoluta liricità, senza alcun fine didascalico. Matura è la libertà che sa accogliere ed includere aggiungendo, altri simboli a quelli avvertiti come parte del proprio lessico famigliare dalla maggioranza degli abitanti di un dato territorio.
In un mondo aniconico, e post simbolico, in cui si augurano buone feste e non buon Natale, non mi sentirei più libero, ma sarei più solo con l’idea che uno spazio bianco, un silenzio ininterrotto, una vista non più abitata dall’ulteriorità del trascendente possa meglio scorgere l’orizzonte.
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