L’orientamento e il tutoraggio scolastici promuovono una “formazione” spesso ridotta a una serie di indignazioni e di “giornate”. Cosa manca?
Come altre parole greche, anche “paideia” ha un suono dolce e melodioso. In questa dolcezza balugina un contenuto perduto che forse è utile torni a brillare. Il suo fulgore dapprima ci abbaglierà, accecandoci proprio come accadde al celeberrimo prigioniero del platonico mito della caverna; ma poi torneremo a vedere e, solo allora, questa seconda vista dischiuderà una nuova prospettiva su circostanze percepite come se fossero ineluttabili.
Paideia è formazione dell’uomo, una parola che il senso del termine latino “humanitas” non riesce, come non di rado accade, a restituire pienamente. In ogni tempo, latitudine e cultura, la scuola ha plasmato l’uomo: lo ha certo fatto, tecnicamente, con modalità e in forme diverse. Così se, sempre per restare nell’Ellade, il verso omerico, affidato all’oralità poetica, alludeva a una virtù esteriore; la progressiva acquisizione della cultura scritta ha implicato la capacità di pensare per concetti e, conseguentemente quella di trasmettere non solo le gesta degli eroi, ma anche le caduche scoperte dei mortali. Il pensiero filosofico, la geometria euclidea, la stessa medicina ippocratica, sono state vivificate dalla nascita della scrittura e, con lei, del pensiero astratto che, però, presuppone un orizonte assiologico di fondo.
Mi è capitato di svolgere queste considerazioni mentre assistevo in una IV liceo scientifico, in cui insegno filosofia e storia, ad un’ora di orientamento. Venivano illustrate alcune competenze-chiave, ritenute utili per la crescita di un giovane: la capacità di lavorare in gruppo, l’essere empatici e tolleranti, la disponibilità, in un flusso continuo, a esperienze sempre nuove tendenti a cambiare il proprio punto di vista su di sé, sulle scelte – da considerarsi sempre e comunque reversibili –, sulle circostanze.
In un mondo in cui il reale muta vorticosamente in direzioni e secondo modalità che appare oggi pressoché impossibile prevedere, si tratta naturalmente di aspetti cruciali. Va anche salutata positivamente l’opzione, operata a partire dal corrente anno scolastico, di far iniziare queste attività orientative dalla classe IV. Azioni prodromiche certo alla scelta della facoltà universitaria o di una collocazione professionale, ma anche miranti a formare una sorta di “habitus”, di tratto tendenzialmente stabile della personalità, pur se ancora in formazione. Proprio a questo livello però mi pare di rilevare una non lieve fallacia argomentativa: se infatti i contenuti sono validi – per le ragioni accennate – questi sono declinati in una prospettiva totalmente funzionalistica e anassiologica. Si tratta, come vedremo, di un atteggiamento in cui ogni azione è funzionale a uno o più scopi e da questo suo essere adatta a conseguirli, trae la sola legittimità.
Da questa affermazione si inferisce “a contrario”, che tutte le azioni che pretendono di valere non in virtù di uno scopo estrinseco, se non possono essere bandite, vanno comunque depotenziate. Un mondo di individui tolleranti, si argomentava, funziona meglio; una persona duttile e capace di lavorare in gruppo troverà prima un’occupazione e sarà scelta più facilmente, rispetto a chi non lo è. Ogni atteggiamento non preferito per sé stesso, ma unicamente in funzione di un risultato che la sua assenza avrebbe precluso; né, tanto meno, l’attitudine in questione veniva problematizzata. Solo per fare un esempio: se è giusto dire che è bene essere tolleranti, questo non risolve di per sé tutti i problemi, perché resta inevasa la questione se si debba esserlo, ed eventualmente fino a che punto, con chi manifesta pulsioni intolleranti.
Altro sarebbe stato affermare: “una persona tollerante ha più probabilità di essere felice”. Ma , ecco il punto, dire questo avrebbe significato far rientrare dalla finestra proprio quel orizzonte assiologico tipico dell’etica aristotelica, che invece, aprioristicamente si è voluto bandire. Non servono le etiche prescrittive, ci bastano quelle eudemonistiche che ci ricordano un fatto fondamentale: ogni uomo, agisce per essere felice e posto questo fine, diverge dagli altri, poi, sia sulla natura della felicità, sia soprattutto, sui mezzi per conseguirla. Ma la nostra scuola, in cui tutto serve a qualcosa di apparentemente spendibile, ha bandito i fini, e , così concentrandosi ossessivamente sui mezzi, rischia di fallire: perché, se i fini non ci sono più, allora i mezzi – l’uso di un programma informatico, di una tecnica quale che sia –, divengono essi stessi fini. Ma un mezzo non ha una natura teleologica: il vero è l’intero, non una congerie pulviscolare di frammenti in cui mi si educa a mangiare in modo sano, ad evitare stili di vita scorretti, ma non mi si porta mai – guai a farlo – a riflettere su chi io sia, su quale sia il mio posto nel mondo, anche solo – non sarebbe poco – per restare nella sorgiva meraviglia della domanda. Oltre gli interrogativi sul come, esiste, persiste, la sempiterna domanda sul perché, questione antropologica, filosofica, ultima e prima.
Se le risposte ci fanno paura, perché vi scorgiamo un atteggiamento totalizzante, allora torniamo alle domande, a quella meraviglia capace, sola di dare origine al pensiero, a quel tendere, che non significa possedere, a ciò che è: valido, vero, buono, bello. Non in astratto ma per me: perché non esistono una felicità e una realizzazione che non siano la mia felicità, la mia realizzazione; e questo, a ben guardare, è appunto il concetto greco di virtù che prescrive mezzi adeguati per raggiungere un fine.
L’educazione pulviscolare, invece, segue le urgenze della cronaca: un grande spettacolo in cui fenomeni si succedono mentre una lente, inevitabilmente distorcente, ne inquadra uno come se fosse il solo degno di nota. Nella scuola del frammento l’indignazione sostituisce la capacità di riflettere, la hegeliana fatica di apprendere il mondo con il pensiero: così superficialmente, nel medesimo anno ci si indigna prima per la guerra, poi per la violenza di genere, infine per altri deprecabili fatti. Ma si nuota a pelo d’acqua, perché oltre l’interesse di facciata, da tutto, a ben guardare, si resta distanti e lontani, protetti dal rassicurante schermo del telefono.
Non dico che la scuola non debba occuparsi anche di questi fenomeni; ma addolora profondamente sentir dire che questo sarebbe più importante della conoscenza di Platone o di Aristotele. Non per ciò che viene detto, ma per quanto, in questo discorso resta implicito: e quanto resta implicito è appunto il funzionalismo organicistico che, cancellati i fini, si occupa ormai solo dei mezzi. Se i mezzi divengono fini, perché non siamo più d’accordo su quali siano i fini e così facendo ci pare di essere neutrali, noi rischiamo di non formare più persone cioè esseri relazionali che, non bastandosi, cercano il senso nel altro e nel oltre. Esseri che, in ultima analisi, non domandino per il gusto estetizzante di domandare, ma lo facciamo a per avere una risposta – certo relativa e asintoticamente sottoponibile ad ulteriori domande in un processo che, lo sappiamo, mai avrà fine.
Un senso relativo, umano e, quindi aristotelicamente contingente: un senso popperianamente falsificabile. Ma l’idea, questa sì insensata, che un senso non debba programmaticamente neppure più essere cercato, rappresenta un tarlo corrosivo, perché annulla non la risposta, di cui si paventa la possibile intolleranza; ma l’esistenza stessa della domanda; non il possesso stabile di una virtù, ma la fatica, umanamente ardua della sua ricerca.
Lettura agile e significativa, la scuola, il grande interesse di Alessio.
Grande educatore e conduttore di adolescenti, che sostiene nella crescita vera, completa, difficile ma soddisfacente.
Grazie.