Post lunghissimo e meditabondo, autopippone. Abbiate pietà della mia logorrea senile.
Sono trascorsi un anno e sei mesi da quando mio marito è morto ed io ho cambiato il mio stato civile da coniugata a libera, un tempo non breve e non lungo, che mi ha permesso di prendere un po’ di distanza dal dolore acuto della mancanza e mi ha donato una prospettiva nuova verso questo istituto naturale – il matrimonio – che pare essere caduto in disgrazia in Italia.
Sposarsi non è più il sogno tipico delle coppie, forse nemmeno formare una coppia stabile è più un sogno tipico: in fondo (anzi, in superficie) si sta bene anche da soli, con ampi spazi personali e modalità di svago in compagnia più o meno occasionale. La società si sta tarando sui single, i carrelli dei supermercati si riducono di dimensione, gli hotel si pubblicizzano come child free, aumentano le proposte ludiche per conoscere gente e spopolano le app di incontri. L’esercito dei single ha proporzioni enormi ed età trasversali. Rispetto al passato, però, questo esercito non è rassegnato: anche abbondantemente negli anta, un single cerca compagnia, salvo poi non saper definire un progetto per garantire solidità e durata a questa compagnia, cioè son tutti pronti ad uscire per cena, passare la notte insieme, rivedersi al fine settimana, ma se domandi “come vedi questa relazione tra un anno?” non sanno proprio cosa dire, nemmeno riescono a pensarci. Spesso non ci sono le condizioni per riorganizzarsi la vita, ma più spesso manca la freschezza di un sogno giovanile e l’idea che ci sia un futuro da costruire. Sono relazioni in difesa, in discesa, avviate per colmare vuoti, cerotti su ferite. Hanno in sé un germe di tristezza e decadenza che le rende commoventi.
Spesso incontro persone così, anche io ne faccio parte, e sempre mi scopro subito ad amarle intensamente, nella bellezza della loro esperienza, nella ricchezza dei vissuti, tutti diversi, nella profondità delle ferite, da cui nessuno è esente. Il difficile però è trovare una modalità autentica di amare che rispetti l’età, che tenga conto del fatto cruciale che la vita che resta è drammaticamente meno di quella già passata.
Non è un marketing vincente dirlo, ma in una persona vicina ai sessant’anni bisogna guardare la salute più che la bellezza, la tendenza o meno a lamentarsi nelle difficoltà, a che piano ha la casa, se c’è l’ascensore. Cioè, fuori dai denti, tra 15 anni non è ipotesi remota ritrovarsi un mezzo invalido come compagno/a. Davvero me ne deve fregare qualcosa dei suoi muscoli? Preferisco vedere gli esami del sangue.
So che tutto questo è così drammaticamente prosaico da essere quasi comico, ma l’amore vero è concreto, non romantico e campato per aria. La domanda che mi faccio io davanti ad una persona è: potrei accudirla se restasse invalida? E mi lascerei accudire se fossi io ad avere bisogno?
Sarà perché l’amore della mia vita è terminato nella malattia feroce e non l’ho visto sbiadire per questo, sono convinta che non servono fiori e cioccolatini, ma diete ipocaloriche e sedute dal fisioterapista.
La domenica mattina in duomo c’è sempre una coppia di persone anziane, sedute a metà della navata destra; lei ha lo sguardo perso nella demenza senile, lui ha il passo malfermo e le spalle irrigidite. Alla comunione, si alzano, lui afferra la moglie per un polso e se la tira dietro, come una valigia, la guida per la chiesa, fino all’altare e ritorno. I gesti non sono affatto sdolcinati, anzi, appaiono quasi duri. Eppure quella stretta al polso, invece che alla mano, che tanto non stringerebbe la presa, è sicura e delicata, e soprattutto non attende contraccambio, è gratis. È il segno di un accudimento costante, assiduo, competente, che non va in vacanza nel weekend. Ed io penso ogni volta che darei le braccia, le gambe e gli occhi per riavere mio marito, in qualunque condizione, anche immobile come uno stoccafisso, in coma, demente, come vi pare, per riavere il mio matrimonio, quella promessa di fedeltà che mi dava un senso, un posto chiaro, magari scomodo, a volte deludente, ma sempre rispondente alla domanda ultima e ineludibile del mio animo e cioè cosa vuole la vita da me.
A chi pensa che il matrimonio sia un contratto burocratico o poco altro, vorrei dire che invece è quella mano magica che infila la nostra tessera sghemba esattamente nel buco che ha la nostra forma e ci rende parte di un disegno complessivo ampio, chiaro, che attraversa il tempo e ci avvia all’eternità.
E vorrei anche dire, contro i miei interessi, che il matrimonio nella vita può essere uno solo. Il resto sono solo noccioline da aperitivo, che ti saziano l’appetito facendoti venire sete.
Qualunque cosa possa intervenire a distruggere un matrimonio – la malattia, il tradimento, la follia, le disgrazie, il vizio, la sfortuna – e per quanto sia umano e comprensibile voler creare una nuova relazione, comunque la verità resta una, inalienabile e testarda. Poi, se volete, facciamo finta di no, condiamo tutto di relativismo e buonismo, ci congratuliamo con chiunque per la qualunque, senz’altro amiamo tutti senza pregiudizio e auguriamo duratura felicità. Ma con me non c’è bisogno che adottiate gentilezze di circostanza, purtroppo (o per fortuna) non posso esimermi dal guardarmi con cruda onestà e lo so, vi assicuro che lo so, quello che dovrei fare. Ho un piano di miglioramento impostato che si dipana per l’avvenire e ci metterò tutto il tempo che mi resta per arrivarci. Per gradi, piano, a volte andando anche indietro, o facendo colossali sbagli, ma non mi arrenderò mai, io voglio la stessa cosa che ho sempre perseguito nel mio matrimonio: io voglio il paradiso.
Quindi, in riferimento al titolo: una (seconda) possibilità è possibile? Non so rispondere con certezza, ma certo l’unica strada è non accontentarsi di meno dell’assolutamente tutto. Se fossimo adatti a rimestare nel trogolo, saremmo nati maiali. Invece siamo nati uomini e donne, qualcosa vorrà pur dire.
È sempre credo, questione di discernimento, di comprendere cosa Dio ci chiede per stare e continuare nella Sua Volontà e non ultimo nelle differenti e molteplici situazioni della vita di ognuno.
Io sono rimasto vedovo nel 2005 dopo 15 anni di Matrimonio e cinque anni di malattia di colei che fu mia Sposa. Aveva solo 40 anni e avevamo già 3 figli.
Al di là dei desideri del cuore e delle aspettative di un uomo diciamo ancora giovane, c’era la responsabilità di questi figli ancora piccoli, l’oggettiva difficoltà (forse incapacità) di fare da padre e madre – anche se per due anni ho fatto da “mammo” ;-)
Non di meno la chiara visione della necessità di una famiglia unita e chiamata a crescere in un Matrimonio cristiano e nella Fede da passare ai figli.
Sin da pochi mesi dopo la salita al Cielo di colei che fu mia Sposa, chi mi seguiva nel mio (e precedentemente nostro) cammino spirituale, mi indicò chiaramente la necessità di risposarmi, proprio in prospettiva di quanto sopra. Devo dire che in quel momento, per i sentimenti e il dolore che ancora provavo, questo “invito”, mi parve quanto mai prematuro e mi lasciò “frastornato”, ma era per l’appunto un invito a guardare avanti, a non chiudersi in una gabbia fatta magari di tristezza e chiusura all’ascolto dello Spirito e del Suo intervento.
Il mio “sforzo”, la mia fedeltà era quindi rivolta non più alla Sposa (che certo vegliava e intercedeva per me e i nostri figli), ma totalmente a Dio, all’ascolto Suo, alla preghiera, al combattimento contro gli inganni del maligno anche nella scelta concreta di non frequentare donne divorziate o separate – molto più facile incontrarne a quell’età – non tanto perché “cattive persone”, ma per l’impossibilità di tornare allo stato matrimoniale nel Sacramento a cui ancora mi sentivo chiamato.
La fedeltà di Dio e la conferma di ciò che sentivo essere buono per me e i miei figli, non si è fatta poi attendere e nei due anni successivi, attraverso una cara amica, ho conosciuto una “ragazza di 42 anni” che ha avuto la “sventura” di innamorarsi di me :-) e di prendersi in dote i miei figli, accettandoli e imparando negli anni ad amarli come suoi, oggi ricambiata anche se non sempre il percorso è stato “facile”.
Con Lei in comune abbiamo la Fede e quel che ne deriva e stiamo proseguendo quel cammino di conversione necessario ad ogni uomo e donna che siano essi soli o sostenuti l’un l’altra nel Matrimonio. Non di meno, nel mio caso, vedo quando è stato buono questo nuovo Matrimonio, per la crescita e l’accompagnamento dei nostri figli sino alla loro (ormai raggiunta) età adulta.
Per esperienza noto come per le Donne, sia più semplice (molto tra virgolette) il “restare vedove” ed entrare in uno stato di grazia diverso e non meno arricchente e ricco di frutti.
Siamo diversi e diverse le situazioni, ma assolutamente si: esiste una “seconda possibilità” per i vedovi, sempre che questo coincida con il piano di Dio per la nostra salvezza, la nostra realizzazione, la nostra strada – come giustamente è stato scritto – per il Paradiso.
Non entro nel merito del post di Lucia Scozzoli (sebbene basterebbe il secondo capoverso per tributargli like in abbondanza) ma saluto con gioia il ritorno alla comunicazione digitale di un’autrice di cui ho sempre apprezzato lo spessore, oltre che la scrittura