Celeberrimo per la produzione da romanziere, l’autore del Signore degli Anelli rimase nondimeno sempre legato alla filologia.
di Samuele Pinna & Federica Favero
È il 2 settembre 1973 quando J.R.R. Tolkien, tra i massimi scrittori contemporanei, muore a Bournemouth, nello Hampshire: il creatore di miti – scrive Paolo Gulisano – entrava da quel momento, lui stesso, nel mito. Nato a Bloemfontein, Stato Libero d’Orange nel Sudafrica, il 3 gennaio 1892 da genitori inglesi originari di Birmingham, ritorna in questa città con la famiglia dopo la morte del padre nel 1896. La madre, che gli trasmetterà l’amore per le lingue e per le antiche leggende, muore nel 1904 e padre Francis Xavier Morgan – sacerdote cattolico dell’Ordine degli Oratoriani – prosegue la sua educazione. Studia all’Exeter College di Oxford, dove ottiene nel 1915 il titolo di Bachelor of Arts. Nel 1919, dopo aver combattuto la Prima Guerra Mondiale con il grado di tenente, diviene Master of Arts e collabora all’Oxford English Dictionary. Dal 1925 al 1945 insegna Lingua e Letteratura anglosassone a Oxford e, in seguito, Lingua e Letteratura inglese fino al ritiro dall’insegnamento accademico nel giugno del 1959.
Tolkien, oltre a essere ricordato come uno straordinario autore di storie epiche, fu esperto di filologia: per decenni fu professore di questa materia, dimostrando una perfetta conoscenza delle lingue nordeuropee dell’Età di mezzo. Il suo progetto iniziale non era la redazione di un singolo romanzo divenuto in seguito celeberrimo – Il Signore degli Anelli –, bensì quello di creare un’epopea, una mitologia da donare al suo paese che, come precisa, ne era in realtà privo:
Fin dall’inizio – egli scrive – ero costernato dalla povertà della mia terra: non aveva storie veramente sue (legate alla sua lingua e al suo territorio), non comunque del tipo che cercai e trovai nelle leggende di altre terre, c’era molto di greco, e di celtico, di romanzo, germanico, scandinavo, e finlandese (che mi influenzò molto); ma niente di inglese, tranne materiale impoverito all’interno di racconti e poesie popolari […]. Ma una volta (da lungo tempo ormai ho rinunciato a quell’ambizione) avevo in mente di creare un corpo di leggende più o meno legate, che spaziasse dalla cosmogonia, più ampia, fino alla fiaba romantica, più terrena, che traeva il suo splendore dallo sfondo più vasto – da dedicare semplicemente all’Inghilterra, alla mia terra. Avrebbe avuto il tono e le caratteristiche che io desideravo, di freddezza e di chiarezza […], e, pur possedendo (se ci fossi riuscito) quella bellezza sfuggente che alcuni chiamano celtica (benché sia difficile trovarla nelle antiche cose veramente celtiche), sarebbe stata “elevata”, purgata da ogni volgarità, e adatta allo spirito adulto di una terra da tempi lontani impregnata di poesia[1].
Imprescindibile in quest’idea di mitopoiesi letteraria è l’aspetto della sua professione. Egli, infatti, in seguito a un’intervista apparsa il 5 giugno 1955 sulla rivista New York Times Book Review afferma di essere un filologo, e per questo motivo tutto il suo lavoro è improntato sulla filologia:
Con l’osservazione sulla filologia – spiega – intendevo alludere a quello che io penso sia un tratto fondamentale del mio lavoro, e cioè che è di un unico tipo, e fondamentalmente linguistico nella sua ispirazione. Le autorità universitarie possono ben considerare un’aberrazione da parte di un anziano professore di filologia quella di scrivere e pubblicare storie fantastiche e romanzi, e chiamarla un “hobby”, scusabile perché ha avuto successo (cosa che ha sorpreso me quanto gli altri). Ma non è un “hobby”, nel senso di qualcosa completamente diverso dal lavoro, uno sfogo e un sollievo. Alla base c’è l’invenzione dei linguaggi. Le “storie” furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia[2].
Un esempio di quanto racconta è il fatto che un giorno, agli inizi degli anni Trenta, scribacchiò su un foglio bianco di qualche «noioso esame scolastico» la parola hobbit, senza che neppure lui ne sapesse il significato. Dovette, infatti, passare del tempo prima che lui stesso scoprisse a cosa si riferiva quel termine, creando una storia – Lo Hobbit, appunto – per dotarlo di un contesto e di un’esistenza non più solo – potremmo dire – linguistica, ma anche letteraria e “reale”.
Tolkien – scrive Guglielmo Spirito – rimane precipuamente un filologo e, dalla considerazione di questo dato, è possibile scoprire come l’universo che egli dischiude si origini a partire da una lingua e dalla sua capacità di leggere non so quante lingue antiche. Scrive in inglese moderno con la cadenza epica del middle English […]. A differenza di altri autori, restituisce alla lingua un’incredibile potenza evocativa, e arriva a creare un mondo esattamente a partire da qui; la sua scrittura possiede, dunque, come degli strati sovrapposti di profondità, essa è per così dire “geologica”, e ciò che emerge è un’armonia di linguaggi che determina a sua volta un’armonia di mondi[3].
In questo senso, lo scrittore inglese ci ha lasciato la più bella storia raccontata nel corso del XX secolo: Il Signore degli Anelli:
In questo leggendario racconto – connotato in un arco di tempo piuttosto breve rispetto alle altre epoche della storia della Terra di Mezzo – i vari protagonisti sono chiamati a distruggere un possente male, l’Anello del Potere, forgiato da Sauron, uno spirito angelico decaduto che vuole conquistare la terra creata da “Eru, l’Uno, che nella lingua elfica è detto Ilúvatar” (Sil, p. 23). L’Anello è smarrito e viene ritrovato dalla più improbabile delle creature, l’hobbit Bilbo Baggins, il quale – dopo averlo tenuto per molti anni – lo lascia in eredità al nipote Frodo. Devono passare nove anni da quando Gandalf il Grigio, lo stregone che guiderà la Compagnia dell’Anello, si renderà conto di avere tra le mani l’Unico. Per Frodo della Contea è il momento di partire, anche se per un Hobbit lasciare la sicurezza della propria casa è una follia, che soltanto gli “svitati” (o presunti tali), come Bilbo e pochi altri, avevano fatto in passato[4].
La trama del romanzo si fa quindi epica proprio nel descrivere il periglioso viaggio che Frodo Baggins e i suoi compagni, che incontrerà sulla via, dovranno affrontare per distruggere l’Anello del Potere, incarnazione del male.Alla luce di questi aspetti, gli elementi che rendono grande nella sua profondità Il Signore degli Anelli (così come altre opere del glottoteta anglosassone) sono almeno due. Il primo è la fede cattolica, fede che – come egli scrive – «mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so» e che permea il romanzo risultandone un elemento costitutivo ma mai volutamente esplicitato o esibito. Il secondo è legato inscindibilmente alla formazione culturale e professionale dello scrittore inglese, che – come si è già accennato – si definisce sovente “un filologo”: la sua conoscenza della cultura, delle letterature, della mitologia nordica, della società e della mentalità del Medioevo, infatti, ha fornito la trama su cui tessere – grazie anche alla sua capacità di creare linguaggi grammaticalmente e sintatticamente ineccepibili, complessi e quindi credibili – l’arazzo straordinario delle vicende della Terra di Mezzo. Questo duplice modus essendi di J.R.R. Tolkien – l’essere cattolico e l’essere filologo – costituisce e invera la sua epica, capace di essere attuale e di risvegliare quanto di nobile alberga nell’intimo di ogni lettore.
[1] J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza, Lettere 1914-1973, Bompiani, Milano 2001, n. 131, p. 165.
[2] J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza, n. 165, p. 248.
[3] S. Pinna – D. Riserbato, Tolkien: Il Signore degli Anelli. Conversazione con Guglielmo Spirito, in Idd., Filastrocche e canarini. Il mondo letterario di Giacomo Biffi, Presentazione di Pinocchio e Postfazione di Matteo Maria Zuppi, Cantagalli, Siena 2018, p. 170.
[4] S. Pinna, Il viaggio: inizio e fine dell’avventura cristiana, Presentazione di Bruno Maggioni, Cantagalli, Siena 2020, pp. 34-35.
Grazie don Samuele per i suoi scritti che sono una miniera di saggezza che nutrono l’anima