Breve e meditativa, confidenziale e amicale è risuonata l’omelia di papa Francesco in una Piazza San Pietro in cui il rigore della nebbia invernale veniva stemperata da un sole finalmente invitto.
Soprattutto, è stata un’omelia tutta imperniata su spunti provenienti dalle “parti inedite” delle letture proclamate: la chiave ermeneutica è stata enunciata in apertura, Francesco l’ha scelta nel versetto del salmo citato da Gesù morente – «Padre, “nelle tue mani affido il mio spirito”» (Lc 23,46).
E non sul Padre né sullo Spirito, ma sulle mani si è sviluppata la riflessione del primo Papa che nella storia ha celebrato il funerale del proprio predecessore, morto da “Papa Emerito” durante il proprio regno (e in Vaticano, perfino). «Guardate le mie mani», dirà il Risorto a Tommaso e agli altri, destinati a diventare «testimoni della risurrezione» e «della sua gloria».
Le mani di Cristo, mani d’uomo e di Dio al contempo, sono le mani del Vasaio stesso della prima lettura (altro inedito nelle messe esequiali), le mani che plasmano l’uomo dalla terra e che di ogni uomo fanno un vas electionis.
Le mani che hanno plasmato l’uomo sono pure le stesse che a tutti gli uomini della storia consegnano la carne del Dio umanato («prendete e mangiate – ha ricordato Francesco –: questo è il mio corpo»), ed è a similitudine di quelle mani che i sacerdoti cristiani di ogni tempo offrono agli uomini «il nutrimento della verità di Dio». E qui è stato chiaro che l’omelia declinava l’esegesi sui tratti di Benedetto XVI. Difatti Francesco ha così cucito: «Affidiamo il nostro fratello alle mani del Padre».
La citazione di Gregorio Magno, dalla Regula pastoralis, è risuonata come una condivisione “da papa a papa” che si faceva eco delle raccomandazione di un altro papa (uno dei primi “magni” della storia) a tutti i vescovi del mondo.
E come in una ballata provenzale, la chiusa è arrivata improvvisa e breve, avulsa dal contesto ma rinviante alla lezione dell’amato sant’Agostino:
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