Non tutti nella capitale
sbocciano i fiori del male:qualche assassinio senza pretese
Fabrizio De André, Delitto di paese
abbiamo anche noi in paese.
Così cantava Fabrizio De André nel 1969, e in fondo quando sfogliamo la cronaca nera lo facciamo con un senso misto di curiosità, disgusto e triste déjà-vu. Nel rincorrersi di moventi più o meno banali, gli omicidî infatti si assomigliano più o meno tutti. Di tanto in tanto, però, assurge ai macabri onori della cronaca qualche delitto tanto efferato da travalicare la pagina di giornale e “dover” diventare letteratura: non si poteva lasciare confinata nelle pagine dei quotidiani del 1888 l’enormità di “Jack lo squartatore”. Analogamente, sul cosiddetto “Eccidio di Cielo Drive” (in cui trovarono la morte per ispirazione di Charles Manson Sharon Tate, incinta di 8 mesi e mezzo, tre amici e un passante) si sono scatenati saggisti e cineasti – buon ultimo Quentin Tarantino, che difficilmente resiste al “richiamo del sangue”.
Una tragica banalità
Nella scorsa estate Repubblica ha riproposto (in edicola) i libri già editi di Emmanuel Carrère, tra i quali spicca L’Avversario, cronaca romanzata (o romanzo cronachistico?) della vita e del delitto di Jean-Claude Romand, condannato all’ergastolo nel 1993 e tornato in libertà (con la condizionale) nel 2019.
Ecco un caso veramente straordinario, nel quale l’atrocità del delitto viene quasi oscurata dalla tragicità del movente, e la “banalità del male” si fa così oscura da sembrare profonda. Durante il proprio processo, a Gerusalemme, Adolf Eichmann (per cui Hannah Arendt coniò l’espressione) lasciò il mondo sgomento col suo fare da impiegatino del Reich, che sterminava ebrei come avrebbe timbrato carte, e rivendicava a sé di aver soltanto “eseguito gli ordini”; durante il processo Romand l’imputato, il quale da nessuno aveva ricevuto ordini ma che conservava l’evidente intento di restituire una buona immagine di sé, dichiarò più volte di non sapere bene perché avesse agito come aveva agito, e anzi di desiderare di arrivare a comprenderlo.
[…] uccise la moglie con un mattarello, cancellando l’omicidio dalla memoria: rimase qualche tempo davanti alla televisione con i due figli: li coccolò, sussurrò loro parole affettuose: li assassinò con la carabina: pranzò con il padre e la madre, che abitavano in un’altra casa, uccise entrambi, li avvolse in un copriletto; e uccise il cane che adorava, avvolgendolo poi in una trapunta azzurra. Giocò con il telecomando, registrando frammenti di trasmissioni diffusi da decine di canali: probabilmente cancellò alcuni amplessi con la moglie, che aveva registrato su una cassetta. Era il momento di morire. Lui rinviò, sempre di nuovo, quel momento. Aspettò le tre di mattina per versare delle taniche di benzina, cominciando dalla soffitta e spargendo la benzina sui bambini, la moglie e le scale. Non riuscì ad uccidersi: perché non voleva uccidersi.
Questi i fatti bruti (e brutali) come li riassunse sul Corsera, nel maggio 2013, la penna di Piero Citati. L’interminabile e insostenibile premessa di questa scarica di gratuita e insensata violenza, però, era stata la menzogna. Una vita di menzogna. Un gorgo di pseudomania cronica che per decenni aveva allestito, a partire dall’intimo di Romand con ampie spire attorno a lui, una vita inesistente, che però aveva l’obbligo di sostenerne altre: non si era laureato in medicina come aveva detto, non aveva vinto concorsi come aveva detto, non lavorava in questo o quell’ospedale come aveva detto; ma Romand non era un mitomane fra gli altri perché veramente una donna lo aveva sposato e gli aveva dato dei figli, e veramente costoro hanno riposato sulle invisibili ed enormi menzogne dell’uomo. Il denaro necessario alla finzione veniva trafugato dai genitori e da un’amante.
Infine, il colpo esplose – di nuovo Citati sul Corsera –. L’amante gli aveva dato una grossa somma da investire: un giorno la volle avere indietro: lui l’aveva spesa completamente, e non gli restava nulla da restituire. Si comportò come il re di una partita a scacchi minacciato su tutti i fronti, al quale rimaneva una sola casella libera. Si impegnò. Avrebbe restituito il danaro il 9 gennaio 1993; e invitò l’amante a cena per quella sera. Fin dall’inizio, aveva immaginato che la conclusione logica della sua storia sarebbe stata il suicidio; e sino alla fine, lesse libri sul suicidio, e il dizionario dei farmaci, immaginando di iniettarsi una dose mortale di veleno. Non sapeva quale soluzione scegliere: se uccidersi, come la logica avrebbe voluto; o chiudere la sua enorme menzogna con un grande massacro.
«…mettere il mondo sottosopra con la conversione… se sarà vero!»
Il processo si era concluso nel 1996 con un’ovvia condanna all’ergastolo, ma il 25 aprile 2019 la Corte d’Appello di Bourges accolse la sua richiesta di scarcerazione condizionale: lo sconcerto non fu solo del cognato («Speravo che avrebbe avuto la decenza di scontare tutta la pena»), ma dell’intera opinione pubblica. Oltre alla consueta riluttanza a riaccogliere un reo confesso di tanto delitto (per di più senza che la pena fosse stata scontata – neanche in una frazione importante), la questione fondamentale – alla quale neanche gli psichiatri forensi avevano saputo dare una risposta univoca – era la seguente: come sincerarsi della sincerità e veridicità di un tale mentitore (enormemente più seriale nella menzogna che nello stesso smisurato omicidio)?
C’era stata una pretesa conversione, in carcere. Già Citati nel 2013 lo registrava, e al passato remoto:
Poi Romand attraversò una fase religiosa: pregava: meditava: esaltava il Natale e l’incarnazione di Cristo: diceva di scrivere «in comunione» con la moglie e i figli che aveva ammazzato; sostenendo che il suo De Profundis si trasformava in Magnificat e tutto attorno a lui diventava luce. Credeva o non credeva alle sue menzogne e alle sue immaginazioni? Gli psichiatri avevano l’impressione di trovarsi di fronte a un robot, totalmente incapace di provare sentimenti, ma programmato per recitare ora secondo un’idea psicologica di sé stesso ora secondo un’altra.
In occasione della scarcerazione la nostra Marzena Devoud aveva ricordato infatti che già nel febbraio del 1993 Romand chiese «a Marie-France Payen, cattolica e visitatrice in carcere da più di trent’anni, durante il loro primo incontro»:
Lei è credente? Perché nelle presenti circostanze è di una accompagnatrice cristiana che ho bisogno.
Il castello di carte era crollato, ma la menzogna era finita o continuava sotto altre forme?
Un giorno Romand confidò a Marie-France Payen “Non mi resta che la preghiera”. Frase che avrebbe ripetuto spesso, stando a lei. Durante le visite, le conversazioni tra loro viravano spesso sulla questione di Dio: «Parlavamo molto di Cristo. Gli portavo dei libri. Era particolarmente toccato dalla figura di frère Éloi Leclerc, religioso francescano, scrittore e uomo di grande profondità spirituale». Nel 1998, Marie-France Payen gli portò la riproduzione di un quadro di Georges Rouault, La Sainte Face. Una notte – avrebbe confidato alla sua visitatrice –, mentre guardava ancora il quadro appeso al muro della cella, avrebbe ricevuto il messaggio di Cristo: «…e io ti amo».
Impudenza? Certamente, la cosa che in generale ci scandalizza maggiormente della misericordia di Dio è che non sia solo per noi (che poi, in fondo, riteniamo di non averne così grande bisogno).
Che Dio possa amare il demonio come ama la Vergine Madre è un paradosso affascinante buono da sfoderare in un’omelia o in una catechesi, buono per una ricognizione storico-teologica… ma ancora poco urticante per l’amor proprio spirituale. Un poco diverso è se pensiamo che Dio ama come la Vergine Madre quel vicino di casa incancrenito nelle sue manie che ostacola i lavori in condominio, usurpa le servitù della sorella e le fa pure credere di farlo per il suo bene; ancora più scandaloso è il pensiero che Dio (ma solo il Dio cristiano) ami come la Vergine Madre i tiranni che coscrivono giovani e li spediscono su fronti lontani da casa perché passino perfino la notte di Natale a uccidere loro coetanei (i quali sono dunque costretti a difendere i loro cari dall’invasione). Cristo può dire “ti amo” a uno che ha ammazzato la moglie a mattarellate, e poi i figli, i genitori e perfino il cane… e dopo cinque anni appena dai delitti commessi?
Certo, il cosiddetto “buon ladrone” è stato crocifisso probabilmente dopo meno tempo dai propri crimini, e lì sulla croce incontrava il Redentore «condannato alla stessa pena» (Lc 23,40): ma Luca non ebbe troppo imbarazzo a raccontare di quest’ultimo furto di “san Disma” – se non altro di lì a poche ore sarebbe stato anch’egli «morto abbastanza», e tanto sarebbe bastato a concedere al nostro (spietato) giudizio morale «volti distesi, già inclini al perdono» (De André, Via della Croce). Ma questo Romand! Dice che non gli resta “altro che la preghiera” e chiede di uscire dal carcere?
E costui…! […] – viene da borbottare con/come don Abbondio – costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione… se sarà vero. […] Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatt’io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo… […] e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando s’ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant’apparato, senza dar tant’incomodo al prossimo. […] E se fosse tutto un’apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? […] Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare Oloferne in persona. Oh povero me! povero me!
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 23 passim
Si poteva credere all’Innominato, ma non a Cepparello
Certo, a differenza di don Abbondio nessuno di noi deve andare a casa di Romand, ma in un punto abbiamo perfino più ragione di lui, nel dubitare: i crimini del Conte di Segrate erano stati orribili quanto bastava a renderlo “l’Innominato”, ma essi non comportavano la menzogna. Si poteva credere all’Innominato perché il suo parlare non aveva mai avuto problemi nella sfrontata professione (non confessione!) delle scelleratezze: il più agghiacciante dei crimini di Romand, invece, quello di cui egli stesso sembra la vittima prima e ultima (e in mezzo stiamo tutti noi), è la menzogna.
Abbiamo, è vero anche questo, molti più dettagli di quelli che Federigo Borromeo diede al suo curato inviandolo nel castellaccio del Conte:
Contattato da Aleteia – scrisse sempre Devoud –, Jean-Pierre Devaux, cappellano cattolico della Casa Circondariale di Saint-Maur, si è detto rammaricato di non poter parlare oltre per via della necessaria discrezione resa opportuna dalla decisione giudiziaria [l’escarcerazione, N.d.R.]. Ma della conversione Jean Delaunay può dare testimonianza. L’ex capo di Stato Maggiore di Fanteria e membro delle Équipes Notre-Dame […] dal 1955 descrive con precisione la trasformazione che ha visto nel detenuto, che visita regolarmente da più di quindici anni: «Sono un cristiano ben più cresciuto di un chierichetto. Ufficiale di carriera, ho scoperto le carceri nel 1953. Ossi duri ne ho visti di tutti i colori…». Ma aggiunge: «La prigione mi ha fatto scoprire un’altra faccia della realtà umana». […] «Preghiamo insieme. Jean-Claude prega molto, non si perde mai la messa».
Il prigioniero ha trovato sostegno anche presso lo zio prete, che ora è morto. Ma la sua conversione spirituale – lo sottolineano Marie-France Payen, Jean Delaunay e Marie d’Amonville […] – è cominciata con la testimonianza di un altro visitatore in prigione: Bernard Poncet. Detenuto a Buchenwald durante la Seconda Guerra mondiale, Bernard Poncet è stato uno dei primi a incontrare Jean-Claude Romand incarcerato, nel 1993. Sarebbe stata la testimonianza di quest’uomo resistente a colpirlo. Gli avrebbe raccontato della propria conversione spirituale, quando era prigioniero egli stesso, grazie alla lettura del libro di santa Teresa di Lisieux, trovato sotto il pagliericcio della sua cella. «Qualunque cosa tu abbia fatto, Dio ti ama e può perdonarti, se glie lo chiedi». Una frase che lo avrebbe profondamente toccato, stando a Jean Delaunay.
Insomma non manca nessuno: c’è lo zio prete, c’è il veterano dell’esercito e c’è il superstite di un Lager nazista, si è scomodata perfino la solita Teresina dal solito Carmelo di Lisieux – tutto per convertire un altro Pranzini – «un altro figlio» (direbbe il piccolo Dottore della Chiesa). Dobbiamo dunque credere alla conversione di Romand? I giudici (che non sono certo chiamati a decidere di una causa di canonizzazione) hanno creduto alla sua correzione, a quanto pare, mentre a noi non è chiesto di pronunciarci su alcuna delle due cose.
Forse ci brucia ancora troppo in corpo la novella con cui Giovanni Boccaccio aprì il Decameron, quella di Ser Cepparello che «con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è, morto, reputato per santo e chiamato san Ciappelletto». La prima novella del giorno primo narra infatti di un uomo che pervenne all’omicidio (e ad ogni sorta di crimine e peccato) a partire da un’onorata professione e dall’amore per la menzogna:
Egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando un de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti, di quanti fosse stato richesto, e quegli piú volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto: e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti [giuramenti, N.d.R.] grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea, a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato.
Giovanni Boccaccio, Decameron I,1
La propria parola è la propria integrità
Il fatto è che quando uno mente abusa dello strumento del linguaggio e stupra l’integrità della propria persona – che si costruisce anche attraverso relazioni interpersonali, la cui grammatica fondamentale è la fiducia –: più si mente, più è difficile smettere di mentire, ma (come per tutti i vizi) la difficoltà crescente non viene da un crescente piacere (in ogni vizio, anzi, il piacere decresce mano a mano che avanza la pratica), bensì da un illanguidirsi del soggetto. Ogni bugia, insomma, “erode” la nostra robustezza personale, rende più sbiadita la nostra identità, ed ecco spiegato perché Eichmann sapeva cosa aveva fatto e perché, mentre Romand raccontò con ogni dettaglio cosa aveva fatto proprio nel tentativo di comprendere perché. A sfuggirgli non era, non poteva essere, la tragica “logica” del suo movente, ma la propria stessa identità, ed sarebbe stato a ritrovare quella che (forse) egli si sarebbe subitamente rivolto.
Il culto della Verità fu particolarmente forte, in Agostino, al punto che oltre ad aver dedicato ad essa tutta la sua vita egli produsse anche due opuscoli “Sulla menzogna” e “Contro la menzogna”, rispettivamente del 394-395 e del 420: benché il primo sia più massimalista dell’altro, mentre nel secondo si concede (ma non si condivide!) che qualcuno possa trovare moralmente lecito mentire almeno per salvare il prossimo, il vescovo di Ippona ritiene nel complesso che la menzogna sia da evitarsi assolutamente e senza la minima eccezione (evidentemente egli vede bene che non tutte le bugie sono uguali tra loro, e nondimeno esclude esplicitamente che si possano lecitamente fare cose come inchieste undercover). Ciò si deve probabilmente al fatto che egli imputò il preambolo della propria conversione – e dunque la prima opera della Grazia divina in lui – alla viscerale ricerca della verità, da lui condotta negli anni che hanno preceduto il battesimo. La verità corrobora, secondo lui, la struttura dell’essere umano e lo prepara ad accogliere (in Cristo) la Verità che rende vera ogni altra verità, e che a tutte sta da sempre sottesa.
Noi non dobbiamo credere che Romand si sia convertito, ma siamo tenuti a tenere per certissimo che egli si sia potuto convertire e che ancora possa convertirsi. Ciò significa ammettere che l’uomo che ha mentito per tutta la vita possa in questo momento star dicendo la verità. Il che, dopo tanta mostruosa indecidibilità, sarebbe finalmente una buona notizia. La Buona Notizia.
Prima di iniziare l’Inferno di Dante coi miei liceali, chiedo: secondo voi sono più in basso gli assassini o i truffatori? Poi mostro la mappa.
Anche per Dante la violenza (un male-che-sembra-ciò-che-è-cioè-“male”) è meglio dell’inganno (un male-che-sembra-bene).
Grazie Giovanni per questo articolo interessantissimo.