Bioetica e PAV: ne discutiamo con la prof.ssa Brambilla

Genetic engineering concept. Medical science. Scientific Laboratory.

Paolo Cilia intervista e dialoga con la Prof. ssa Giorgia Brambilla, Docente di Morale della vita presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, su alcuni temi etici emersi dalla nuova pubblicazione della PAV.

Paolo Cilia: Gentile Professoressa, la Libreria Editrice Vaticana ha pubblicato un testo che si intitola Etica teologica della Vita. Scrittura, tradizione sfide pratiche. Il volume raccoglie gli Atti di un seminario interdisciplinare di studio promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita. Una iniziativa che desidera cogliere le numerose sollecitazioni magisteriali del Santo Padre.

Una intenzione lodevole. Nel contempo sarebbe interessante sapere se gli atti siano riusciti in questa sollecitazione e se sono riusciti nell’intento di aprire correttamente ad un nuovo orizzonte per la Teologia così come ricorda il Santo Padre: 

…dobbiamo tornare alle radici, questo è vero. Senza le radici non possiamo fare un passo in avanti. Dalle radici prendiamo l’ispirazione, ma per andare avanti. Questo è differente dal tornare indietro. Tornare indietro non è cristiano. […] Il cristiano non può tornare indietro. Tornare alle radici sì, per prendere l’ispirazione, per proseguire. Ma tornare indietro è tornare per avere una difesa, una sicurezza che ci eviti il rischio di andare avanti, il rischio cristiano di portare la fede, il rischio cristiano di fare il cammino con Gesù Cristo. E questo è un rischio. […] E questo non è facile. Per favore, state attenti a questo tornare indietro che è una tentazione attuale, anche per voi teologi della teologia morale.

Discorso del santo padre Francesco ai partecipanti al convegno internazionale di teologia morale, 13 maggio 2022

A latere ci sarebbe allo stesso modo da chiedere a noi stessi se nel “convenire sinodale” viene mantenuta accesa la “devozione” e la “conversione” al Vero, al Bello e al Buono, affinché la ragione ben ragioni, su solide radici e su adeguato slancio di approfondimento in avanti e in alto. Altrimenti perché “convenire sinodalmente”? La sinodalità, poi, come il termine inclusione, è spesso mal compresa perché svincolata dalla necessità del perenne catecumenato nella Grazia.

Però vediamo qualche aspetto stimolante del testo.

Anzitutto concentriamoci sul titolo, come mai secondo Lei si parla di “Etica teologica” e non di “Teologia morale”?

Giorgia Brambilla: Sicuramente il testo ha il merito di mettere in dialogo i teologi e, nel contempo, più saperi e più posizioni, con una metodologia scientifica.

L’epoca moderna ha messo profondamente in dubbio l’idea che dalla fede possa scaturire una qualche conoscenza, contestando, di conseguenza, alla Teologia l’attributo di scienza. Questo pensiero racchiude tutto il riduttivismo moderno della ragione, in base al quale quello che noi conosciamo può essere tale se ha un’universalità, per cui se uno scienziato effettua un esperimento e trova la legge del fenomeno fisico, quella legge è vera, ha valore conoscitivo, perché chiunque la può riprodurre e può verificare se corrisponde alla realtà o meno. Questo particolare riduzionismo, che prende il nome di “scientismo”, 

rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico.

Fides et ratio, n. 88

Dunque, tutto ciò che riguarda la domanda di senso, ma anche qualunque riflessione sui valori o sull’essere appartiene all’irrazionale e come tale ha solo valore soggettivo e mai oggettivo e quindi conoscitivo. 

Lo scenario moderno è così sotto la nota distintiva dello “studium” della novità che si traduce in rifiuto della tradizione e del passato. L’avvento della modernità è un evento di rottura, di cesura, una rivendicazione di spazi ed ambiti – di autonomia – per la ragione e per la filosofia che non si accontentano più del ruolo concesso loro dalla fede. Si tratta di quel pensare che si definisce “separato” dalla fede di contro a una filosofia “unita” alla fede quale era stato il pensiero medioevale. 

Dunque, in un tempo come quello contemporaneo, a una ipertrofia dei mezzi strumentali corrisponde una rinuncia a ricercare il fine verso cui essi vanno orientati. Per questo oggi è ancora più lampante il fatto che un’Etica costruita alla luce della sola ragione è insufficiente e lo si vede molto chiaramente, a mio giudizio, nelle problematiche legate alla vita e alla dignità della persona umana. Una riflessione su questi temi, che sappia scendere nelle questioni fondamentali, prima ancora che in quelle particolari, è quanto mai urgente.

Venendo alla domanda. 

La scelta del titolo del contributo, francamente, a me ha lasciato un po’ perplessa. Provo a spiegarle perché. 

Ai non-addetti ai lavori, “Etica teologica” e “Teologia morale” possono sembrare sinonimi, ma non è così. Dietro a queste due espressioni c’è un mondo; lo stesso che ruota attorno alla crisi che la Teologia morale ha attraversato tra moralismo e anti-moralismo.

Il moralismo si configura come falsificazione dell’esperienza cristiana: un estrinsecismo che separa ciò che è buono (goodness) da ciò che è corretto (rightness). È un’impostazione per cui la Morale si concepisce come scienza normativa il cui compito è quello di formulare le norme adeguate a giudicare gli atti umani. Hume la denominò “etica della terza persona”, intendendo con questa espressione l’idea secondo cui un atto verrebbe giudicato da un “osservatore imparziale”, riducendo così la Morale ad una specie di Etica procedurale. Questo approccio considera l’esperienza morale come una sottomissione dell’uomo ad un’autorità esterna che lo obbliga e lo giudica. Quindi, all’interno del processo di formulazione del giudizio, compaiono un polo oggettivo (la legge) e un polo soggettivo (la coscienza) in perenne tensione. La riduzione moralistica del cristianesimo, che ha avuto il suo apice nell’epoca dei lumi e che ha trovato sistematicità in Kant, ha suscitato una reazione anti-moralistica. L’odierno anti-moralismo invoca come elemento mediatore per guidare l’agire è solo la «coscienza» del soggetto come autrice autonoma del giudizio morale, rispetto al fondamento cristologico e a quello biblico.

Alcune conseguenze a mo’ di esempio: il Discorso della montagna esprimerebbe un ideale e un richiamo all’intenzione piuttosto che norme determinate e applicabili. E così l’Epistolario paolino costituirebbe una sorta di “parenesi”, storicamente condizionata e perciò non più applicabile. Sarebbe quindi la ragione pratica ad operare autonomamente rispetto alla fede una giusta ponderazione dei beni prevalenti in una certa situazione e a individuare le norme morali adeguate al caso singolo. 

Per questo, si parla di un’Etica prodotta dalla ragione autonoma, collocata poi in un contesto di fede, cosa che le fa assumere il carattere teologico (da cui appunto “Etica teologica”) seppure non a livello di contenuto.

Solo per capirne la portata: questa è la cornice in cui si collocò l’opposizione all’enciclica Humanae Vitae che fece da vero e proprio detonatore per il dibattito morale; si pensi alla questione degli assoluti morali. Con questa espressione si intendono norme morali che descrivono certi tipi di azioni, oggetto possibile di scelta, e qualificano queste azioni come intrinsecamente cattive e quindi proibite sempre. Chi contesta questa visione, di solito non rifiuta in toto gli intrinsece mala, ma dà ad essi un valore più che altro esortativo. 

Una norma morale negativa, invece, esprime il giudizio della ragione pratica secondo la quale un atto per il suo oggetto implica una scelta contraria al bene della persona e non potrà ma diventare buono, neppure se procura vantaggi a livello di altri beni umani e neppure se è fatto in vista di un ulteriore fine buono (qui l’errore principale quando si parla di “male minore”, che è un principio che può essere contemplato solo quando si tratta di dover scegliere tra mali materiali e non morali).

Ecco perché, ben oltre qualsiasi Etica di stampo procedurale,

la riflessione morale della Chiesa, operata sempre nella luce di Cristo, il “Maestro buono”, si è sviluppata anche nella forma specifica della scienza teologica, detta “Teologia morale”, una scienza che accoglie e interroga la rivelazione divina e insieme risponde alle esigenze della ragione umana. La Teologia morale è una riflessione che riguarda la “moralità”, ossia il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma è anche “teologia”, in quanto riconosce il principio e il fine dell’agire morale in Colui che “solo è buono” e che, donandosi all’uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina.

Veritatis Splendor, n. 29

Paolo Cilia: A proposito di Humanæ vitæ, ci sono alcuni contenuti nel testo che riguardano la procreazione – contraccezione e fecondazione artificiale – che possono destare preoccupazione. Qual è il ragionamento morale che porta al discernimento del vero bene di fronte a tali questioni?

Giorgia Brambilla: Credo che si debba ripartire da un concetto spesso frainteso e ridotto a “nozione essenzialistica” (anche nel testo si trova questa espressione), ovvero quello di “natura”. Questo concetto può suonare strano, addirittura obsoleto, alla mentalità anti-metafisica contemporanea, ma è indispensabile per comprendere come dal punto di vista morale viene considerato l’atto sessuale. 

Il termine “naturale” può avere una pluralità di significati. Evidentemente, ciò che interessa alla Morale non è una mera parificazione di “naturale” a “biologico” e nemmeno di naturale a “non-artificiale”. La “natura”, in senso fisico-finalistico, esprime l’essenza di una cosa (“ciò che è”) in quanto ordinata al proprio fine, in quanto principio di attività e operazioni che hanno ciascuna un proprio fine e che concorrono, però, al fine complessivo e totalizzante di quell’essere. 

È la natura di qualcosa che ci indica quando siamo davanti a una assenza di bene-perfezione-essere che è anche “privazione”, cioè “male”. Ed è la sua natura a dirci quando il bene è, in qualche modo, “dovuto”. 

Quando ci chiediamo cosa è bene o male nell’ambito della sessualità, dobbiamo allora partire dalla considerazione della natura dell’atto sessuale e dunque dal suo fine intrinseco. L’atto sessuale ha come finalità intrinseca la trasmissione della vita. Il valore della sessualità umana risiede dell’essere destinata a dare origine alla persona umana: il riferimento all’esistenza umana è una finalità immanente e un significato costitutivo della sessualità. Questo non significa che il rapporto sessuale abbia un unico fine. Esso è l’espressione di una previa unione affettiva e spirituale. Questa specifica caratteristica della sessualità umana indica che l’uomo e la donna, oltre ad essere chiamati a trasmettere la vita, sono chiamati alla comunione, alla donazione di sé per amore. Questi beni sono però secondari rispetto al bene primario che è la generazione che costituisce appunto la natura dell’atto. I problemi cominciano quando si compie l’atto sessuale negando il suo fine intrinseco. Una volontà orientata in questo senso opererebbe un rovesciamento dell’ordine, appunto, naturale. 

Nella misura in cui positivamente si vuole un atto sessuale chiuso alla vita, si vuole la “privazione” del più grande bene cui esso è diretto. Si parla, quindi, di “bene” o “male” morale in relazione al “fine” e alla “natura” dell’atto. 

E proprio qui sta il male morale della contraccezione e non solo negli effetti abortivi, aspetto su cui il testo insiste particolarmente. Gli effetti abortivi – e specificherei “anti-nidatori”, come quelli dei “contraccettivi d’emergenza” o degli intercettivi ormonali e meccanici – semmai costituiscono un’ulteriore aggravante, non sono l’unico problema della contraccezione. 

Aggiungiamo un altro elemento: la libertà. Senza la libertà, domandarsi cosa l’uomo dovrebbe o non dovrebbe fare sarebbe privo di significato. Motivo per cui la regolazione naturale della fertilità è considerevolmente diversa dalla contraccezione. L’astenersi dal rapporto coniugale nel periodo fertile esprime non una volontà contraria al concepimento, ma semplicemente non concettiva. Contra-concepire, invece, poiché si è deciso di avere un rapporto sessuale quando esso può portare al concepimento, manifesta una contrarietà verso il beneche è il porre le condizioni del concepimento di una persona umana. Nella misura in cui le stesse finalità naturali, di cui fa parte la regolazione della fertilità, non permettono il concreto realizzarsi del concepimento, non si può parlare di “negazione del fine naturale della sessualità” se un rapporto sessuale non ottiene quell’effetto finale. I soggetti non impediscono volontariamente il conseguimento del bene cui l’atto sessuale è finalizzato, come avviene, invece, mediante l’utilizzo, ad esempio, di contraccettivi di barriera pur con le migliori intenzioni degli sposi. 

Il card. Caffarra amava, infatti, distinguere, per chiarire, l’etica della decisione (i cosiddetti “motivi gravi” che possono condurre una coppia in coscienza retta a rimandare o evitare una gravidanza) e l’etica dell’esecuzione, ovvero i mezzi con cui si realizza la decisione buona; in altre parole, anche laddove le motivazioni per rimandare o evitare una gravidanza siano buone, questo fine buono non può essere raggiunto con qualsiasi mezzo, ma solo con mezzi buoni, quindi ricorrendo ai metodi naturali e non ai contraccettivi.

Venendo alla fecondazione artificiale, se abbiamo capito che il concetto di “naturale” non equivale meramente a “non-artificiale” – tant’è che anche nell’ambito della procreazione ci sono modi moralmente sbagliati per evitare la nascita di un figlio pur non essendo artificiali, come il coito interrotto, che è a tutti gli effetti un atto contraccettivo – catalogare tutte le tecniche di fecondazione assistita come sbagliate in quanto “artificiali” non renderebbe ragione alla verità. La tecnologia, infatti, può essere lecitamente utilizzata in tanti campi della medicina e dunque anche in presenza di sterilità. L’artificialità assume un significato negativo, in questo ambito, quando la tecnica esclude le persone e le rimpiazza in una delle tappe del processo della fecondazione: dal prelievo del seme fino all’incontro dei gameti. Questo ci aiuta a capire allora che il problema non risiede solo nella fecondazione di tipo extracorporeo (come la FIV o la ICSI), ma anche in quella intracorporea (come l’inseminazione artificiale o la GIFT), che proprio non può essere considerata, a mio parere, “capace di portare a compimento ciò che il rapporto sessuale di due sposi infertili non può realizzare”, come viene espresso nel testo.

E nemmeno possiamo considerare automaticamente “terapeutico”, e dunque lecito, tutto ciò che non preveda la produzione e il congelamento degli embrioni (errore simile a quello sull’utilizzo dei contraccettivi purché non abortivi).

Ci tengo a ricordare che l’inseparabilità dell’attività procreativa dalla effusione di amore disinteressato in ambito coniugale è un’esigenza della dignità della persona che deve nascere e, pertanto, un bene intrinseco, e non un semplice fatto biologico che può essere sostituito da una procedura tecnica quando ci siano ragioni per farlo; dignità che non ci è mai permesso di svilire o di contrastare, sia pure con buone intenzioni e qualunque siano le difficoltà.

Sostituendo con un atto tecnico l’abbraccio dei corpi, si perverte la relazione con il figlio. Il desiderio di avere un bambino è uno dei desideri più stimabili che esistano, ma può implicare una forte componente narcisista che si discosta da questo amore a cui la genitorialità deve continuamente tendere e in ogni caso da solo non può autorizzare atti contrari al bene morale.

Dire a una coppia che vorrebbe intraprendere la strada della fecondazione artificiale che questa strada non costituisce un bene può essere complicato. Non c’è dubbio che la sequela Christi, «l’osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile» (Veritatis Splendor n. 102). Non dobbiamo cadere in forme di neo-pelagianesimo che separano la Morale dalla grazia, portandoci a dimenticare che il vertice della Morale cristiana è l’amicizia con il Signore: è Lui che seguiamo ed è con Lui, e nella mediazione ecclesiale, che camminiamo nella via del bene. 

Tutte le volte che ci chiediamo cosa è bene in una certa situazione o in un tale ambito, in questo caso quello relativo alla vita umana, non dimentichiamo che «Dio ha già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l’uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf Rm 2,15), la “legge naturale”» (Veritatis Splendor, n.12).

Paolo Cilia: Una delle questioni affrontate dal testo è quella del “Bene Possibile”. È affermazione ricorrente nel Magistero del Santo Padre, in vari contesti e in svariata forma, ed anche nei discorsi omiletici, prolusivi e formativi di eminenti prelati e teologi. Una affermazione affascinante che conserva delle ambiguità se non esplicata. Tale affermazione si usa, in genere, per superare il problema morale del “male minore”. Ma occorre certamente definire cosa si intende per Bene e in quale contesto. San Tommaso ricordava «quod bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum» (Summa Theologiæ, I-II, q. 92, a. 2 c.): il bene è da attuare e sviluppare, e il male da evitare. 

Ai fini di ciò che è la coscienza, della sua illuminazione e della sua crescita nella Grazia, chiarire questi aspetti è dirimente. Soprattutto perché creare confusione su questi aspetti genera dei danni sia a breve termine che a lungo termine veramente insidiosi, come una cancrena. E pregiudica tutta una visione pastorale, specie nelle situazioni difficili che meritano piuttosto tutto l’amore, la delicatezza, l’attenzione, la gradualità e la cura possibili.

Giorgia Brambilla: L’espressione “bene possibile” va capita perché può prestarsi a interpretazioni non sempre corrette. A livello pratico, potremmo dire con San Tommaso che il bene è solo quello possibile (solum possibilium). Può essere “arduo” – pensiamo al martirio – ma non potremmo mai scegliere un bene “impossibile”, ovvero impraticabile. Quindi, l’espressione “bene possibile” in realtà è una tautologia, come spiega anche il prof. Rodriguez Luño nel suo contributo all’interno del testo. 

Diverso è se per “bene possibile” si intendono le possibilità attuali di una persona e se si ritiene che la scelta e l’agire morale si debbano limitare ad esse. Questa sarebbe una considerazione in contraddizione con il cuore della Teologia morale, ovvero le virtù, specialmente nel loro carattere preminente, che è quello elicito (della scelta) ancor prima di quello pratico. Il cristiano, cioè colui che vuole seguire Cristo, non insegue “idealità valoriali” (termine utilizzato nel testo), ma ricerca con l’aiuto della prudenza, auriga virtutum, la santità a cui è chiamato. In altre parole, individua e porta a compimento le azioni che, qui e ora, gli consentono di agire coerentemente con la sua condizione di figlio di Dio in Cristo. 

E questo certo non da “supereroe”, mi passi il termine. La pienezza dell’amore divino, partecipata all’uomo, diventa in lui principio di una generosità nuova che supera sempre tutti i limiti. Se noi impostiamo la Morale nell’orizzonte della regolazione normativa, propria della legge, allora diventa primario stabilire ciò che è obbligatorio come minimo da rispettare. Se invece il fondamento della Morale è l’amore, allora la logica è quella della ricerca di un’eccellenza.

Come ricorda Veritatis Splendor al n. 17,

Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale dell’uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: “Se vuoi”, e il dono divino della grazia: “Vieni e seguimi”. La perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell’uomo.

L’agire perfetto, per mezzo del quale ci muoviamo verso il fine ultimo, si realizza nelle beatitudini che sono l’esito di una sovrabbondanza che proviene dai doni dello Spirito, il quale opera entrando in sinergia con la libertà umana. San Tommaso usa due espressioni per esprimere questa eccellenza: “ex-cellere” e “ex-cedere”.Ex-cellere indica uno “spingere fuori” a partire da un impulso interiore. È lo Spirito Santo che, come impulso interiore, spinge la libertà umana mediante l’amore a eccellere sempre di più. Ex-cedere significa procedere oltre un limite, cioè superarsi. Ed è ciò che avviene tramite le virtù, che ci rendono connaturali al bene.

Il male, infatti, non si vince solo evitando il male, ma soprattutto tendendo con tutte le proprie forze verso il bene («vince in bono malum», Rm 12,21), in un cammino di crescita che non ha limiti, che non si risparmia, ma anzi sovrabbonda. 

Credo che sia arrivato il momento di ridare spazio alle virtù nella catechesi; dal canto suo la Teologia deve tornare a riflettere sull’importanza cruciale del concetto di bene per una riflessione che porti frutto e restituisca senso e bellezza alla Morale.

L’aspirazione al bene presente in ciascun atto va intesa all’interno di una tensione ontologica al bene, che muove tutta l’esistenza umana come ricerca di felicità; una felicità non frammentata in una somma di beni, ma come aspirazione al bene della propria vita, al ben-essere della persona. Anche al bene, infatti, è applicabile la distinzione tra vero e falso. Il bene non può che essere vero – bonum et verum convertuntur – pena la sua distorsione. 

E compiere il bene è anche bello; qui sta la felicità della vita morale. Una felicità nell’ordine della gioia, non esclusivamente del piacere. Non si tratta allora di puntare ai frutti, cioè a normare e rettificare le azioni, ma propriamente all’albero, a partire dalle radici, cioè a rendere buono il soggetto agente.

Ora possiamo comprendere meglio quanto già accennato: la virtù, superando le difficoltà e le fragilità dell’agire umano, rende possibile compiere il bene facilmente, stabilmente e con gioia, coerentemente con un’antropologia integrale della persona umana che riconosce il soggetto morale come un unicum di corpo e anima, un essere “composito” e dunque non costituito di sola ragione o volontà, ma anche di corporeità, emotività, sensibilità: dimensioni queste che vengono appunto integrate in una totalità armonica. 

Le facoltà umane sono predisposte a perfezionarsi, acquisendo gli habitus virtuosi: si tratta di quei “semi delle virtù” (semina virtutum), che sono anche, nello stesso tempo, verità sui beni umani che la libertà è chiamata ad amare e perseguire: i principi basilari della legge naturale.

Paolo Cilia: Il principio di coscienza, la valenza della norma e l’importanza del discernimento sono fondamentali per comprendere una corretta Teologia Morale. Anche a causa del percorso storico di questa disciplina, sembra che la coscienza stia perdendo il suo legame con la verità, rivendicando un primato che però, paradossalmente, da “Sacrario” la isola fino ad una “deificazione” del soggetto. 

Inoltre occorre osservare che accettare acriticamente una dimensione e una visione postuma vuol dire prima chiarirsi sui precedenti antropologici. È un dovere che chiede la stessa ricerca teologica auspicata dal Santo Padre. “Anche se non può pretendere di essere accolta, la verità esige di essere presentata in modo integrale e razionalmente argomentato. Se tradisco questo mandato, inganno il mio interlocutore. Non dialogo con lui, non lo rispetto come uomo” (Mario Palmaro, tratto da Le derive proporzionaliste e la sindrome del “male minore”, 21 novembre 2012).

E, ci si chiede, anche qui, se è possibile una Teologia Morale che, pur con i suoi ambiti specifici, non sia strettamente collegata e rimandi, per come possibile, ad una Teologia della Grazia. La Grazia, infatti, si pone come un motore interiore ed un agente illuminante ineludibile per rispondere con gratitudine ad una norma. Qui la coscienza si forma nella comprensione razionale e nello statuto illuminante che la Grazia crea. Tanto che la coscienza sperimenta una sorta di debito propulsore alla santità (Rm. 8,12-13) e, discernendo comprende e comprendendo gusta e gustando vive. Vive la vita nuova nello Spirito Santo.

Giorgia Brambilla: Innanzitutto è fondamentale chiarire il valore della coscienza e il suo rapporto con la verità. 

Nelle etiche filosofiche e teologiche di stampo “doverista” (si pensi a Kant), la legge morale ha un’origine estrinseca rispetto al soggetto: la norma deriva dalla volontà di un legislatore. Come abbiamo visto, anche l’insegnamento della morale dal 1600 al Concilio Vaticano II ha risentito di questa impostazione, suscitando una reazione anti-moralistica, di cui la morale paga ancora il prezzo (spesso nel sentire comune viene equiparata al “legalismo”). In questo sistema la coscienza è identificata con l’applicazione della legge al caso singolo. Nelle sue estreme conseguenze, coscienza e legge diventano quasi “avversari” perché il soggetto per mantenere la sua libertà deve contenere le pretese della legge. Si arriva così a una sorta di minimalismo morale: ciò che non è espressamente proibito – per esempio l’uccisione diretta – è permesso. Questo porta ad identificare la coscienza con la decisione morale, quasi che non fosse compito della coscienza conoscere, ma decidere auto-nomamente.

Nel testo, in alcuni passaggi, ho riscontrato questo approccio.

La coscienza morale è, invece, il luogo dove l’obbligazione morale ha carattere teo-nomo, viene accolta come dono e conosciuta perché ricevuta. Per la Teologia morale, infatti, l’obbligazione morale contiene un riferimento alla chiamata divina, alla santità ed è per questo che essenzialmente si configura come risposta d’amore a quel «Seguimi!» evangelico (ad es. Mt. 9,9). Come ricorda Veritatis Splendor al n. 16, le indicazioni normative per la vita morale, «nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui».

La conoscenza morale – il cui oggetto è il bene della persona umana in quanto tale – non è una conoscenza puramente speculativa, ma esprime l’originaria partecipazione della mente umana alla luce della verità divina, impressa in noi con il sigillo dell’immagine creaturale. Siamo, quindi, lontani dal binomio auto-nomia ed etero-nomia, perché tramite l’amore suscitato in noi dallo Spirito Santo, possiamo interiorizzare la legge che, a sua volta, diventa nuova spontaneità spirituale che permette il discernimento del bene morale concreto secondo verità. Affermare questo non significa affatto considerare “passivo” il soggetto in questo processo, come abbiamo visto. Dunque, non è accettabile una posizione che attribuisca alla coscienza la “creatività” della legge, riducendo la legge morale naturale a una sorta di “ispirazione”, come si legge nel testo in alcuni passaggi.

È vero che l’obbligazione morale sorge nel momento in cui la legge è personalmente riconosciuta dal soggetto, ma la fonte dell’obbligo non è il soggetto stesso bensì la verità che da lui viene riconosciuta e che sta a fondamento della legge. La coscienza ha autorità se è vera, cioè la sua autorità le deriva dall’essere (o meno) espressione di verità. 

Da questo si comprende anche il dovere che tutti i battezzati hanno di formare una coscienza retta, aprendosi alla conoscenza della verità anche tramite tutti gli strumenti che la Madre Chiesa ci offre, come spiega molto bene il Catechismo. Ed è fondamentale dovere dei sacerdoti formare le coscienze nella luce della verità; per questo loro 

saranno i primi a dare un leale ossequio, interno ed esterno, al Magistero della Chiesa.

Humanæ Vitæ n. 28

Venendo al secondo aspetto della sua riflessione, rapportare la Morale con la Grazia ci porta finalmente a riflettere sul rapporto tra Morale e Fede. Il vero discepolo è colui che esprime nella prassi la sua adesione di fede. Per questo il Sermone della montagna si chiude con l’ammonimento che una solida costruzione della propria vita si basa sull’unità tra l’ascolto e la messa in pratica di ciò si è ascoltato, altrimenti sarebbe come “costruire sulla sabbia”. Il saggio che costruisce sulla roccia è prima di tutto Cristo, che nell’edificare la Chiesa pone sé stesso come fondamento e dunque anche l’unità inscindibile di fede e vita morale come dono e compito cristificante.

La riflessione teologica recente ha liberato da una riduzione intellettualistica anche la fede, sia come virtù sia come atto, ricollocandola nell’orizzonte personalistico di un rapporto che impegna tutta la persona del credente con la persona di Gesù.

Urge recuperare e riproporre il vero volto della fede cristiana, che non è semplicemente un insieme di proposizioni da accogliere e ratificare con la mente. È invece una conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere. La fede possiede anche un contenuto morale e, mediante la morale, diventa “confessione”,

Veritatis Splendor, n. 89

e dunque servizio non solo a Dio, ma anche ad ogni essere umano, considerato nell’unicità e nell’irripetibilità del suo essere ed esistere.

Paolo Cilia: Grazie della condivisione, del tempo profuso e dell’ascolto. Serviamo la Chiesa senza riserve. Buon Perdono di Assisi.

Giorgia Brambilla: Grazie, sì serviamo senza riserve. Buon Perdono anche a Lei e ai Vostri lettori.


Bibliografia di riferimento

L. Melina, Morale: tra crisi e rinnovamento, Edizioni Ares, Milano 1993.

G. Woodall (ed.), La via, la verità e la vita. In occasione del cinquantesimo dell’Humanæ vitae e del venticinquesimo della Veritatis splendor, IF Press, Morolo 2019.

E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano 2012

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