Estratto dal libro “A dottrina con don Camillo. I fondamenti dell’agire umano”, di don Samuele Pinna e con introduzione di Davide Riserbato.
Ha sperato fortemente don Camillo nel racconto Via crucis, quando, ormai in esilio a Monterana, il paese più disgraziato dell’universo, decise di tornare al “suo” vecchio borgo e prendere il “suo” Crocifisso per portarlo con sé nella nuova chiesa sul monte. Aveva l’ordine tassativo da parte del vescovo di non farsi mai vedere giù al paese e così, passando per i campi, si era recato a casa di Peppone per farsi trasportare l’insolita merce. I due si accordarono per diecimila lire, che era tutto quanto possedeva don Camillo, frutto di mesi e mesi di risparmio. La strada da percorrere per arrivare alla nuova parrocchia era lunga e accidentata, perché dopo i molti chilometri sulla provinciale a un certo punto ci si doveva inerpicare per una mulattiera dove nessun tipo di vettura aveva accesso. Dopo essere giunto al bivio che consentiva ancora al camion di viaggiare, Peppone aveva preso congedo e – scrive Guareschi – nella notte incominciò la Via Crucis di don Camillo.
Il Crocifisso era enorme, tutto di rovere. Il Cristo scolpito in legno duro e massiccio. La mulattiera era ripida e i grossi sassi bagnati e scivolosi. Mai don Camillo aveva sentito sulle sue spalle tanto peso. Le ossa gli scricchiolavano e, dopo mezz’ora, egli fu costretto a trascinare la croce, così come la trascinò Cristo verso il Calvario. E la croce diventava sempre più pesante, e la strada sempre più dura, ma don Camillo non cedeva. Scivolò e cadde contro un pietrone aguzzo. Sentì il sangue colargli dal ginocchio, e non si fermò. Un ramo gli portò via il cappello e gli ferì la fronte, e non si fermò. Le spine gli graffiavano la faccia e gli strappavano la tonaca, ma don Camillo continuò a salire. E il suo viso sfiorava il viso del Cristo crocifisso. Sentì lo zampillio di una fonte e non si fermò a bere: continuò a salire. Un’ora, due ore, tre ore. Ma ce ne vollero quattro prima che arrivasse al paese. La chiesa era la costruzione più a monte e, per arrivarci, occorreva percorrere un sentiero senza sassi ma pieno di fango. Lo imboccò e nessuno lo vide, né poteva vederlo, perché la gente era ancora rintanata nei letti: oramai non aveva più forza ed era soltanto la sua disperazione a tenerlo su. Quella disperazione che viene dalla speranza. Si trovò nella chiesa deserta e squallida ma ancora non era finita perché don Camillo doveva ora sfilare la croce nera e nuda e infilare, nei ferri murati dietro l’altare, il piede della sua croce. E fu una lotta da gigante ma, alla fine, il Cristo Crocifisso era lassù[1].
Don Camillo, mentre si abbandonava a terra, senza forze e senza pensieri, sentì la campana e fu costretto dalla sua retta coscienza a rimettersi in piedi e a prepararsi per la prima Messa: era soltanto la sua disperazione a tenerlo su; quella disperazione che viene dalla speranza. E fu questa virtù che con il giorno nuovo si affacciò nel cuore del povero prete. Ormai l’alba aveva preso il posto della notte, scrive Lewis a un certo punto del suo romanzo Le Cronache di Narnia. E cresce la consapevolezza che il giorno sta facendo capolino con il suo chiarore che inonderà la terra. È quanto tenta di spiegare ne Il Signore degli Anelli il personaggio di Aragorn, arroccato nella fortezza del fosso di Helm, ai mostruosi Uruk-hai, posti in assedio.
“E allora tu che fai lassù?”, ribatterono quelli. “Perché guardi fuori? Desideri vedere quanto è grande il nostro esercito? […]”.
“Guardavo fuori per mirare l’alba”, disse Aragorn.
“Che t’importa dell’alba?”, sghignazzarono. “Noi siamo gli Uruk-hai: non interrompiamo la battaglia né di notte né di giorno, né col sole né con la tempesta. Noi uccidiamo, col sole e con la luna. Che t’importa dell’alba?”.
“Nessuno sa che cosa gli porterà il nuovo giorno”, disse Aragorn. “Andatevene, prima che le cose si mettano male per voi”[2].
Infatti, col nuovo giorno, improvvisamente su una cresta apparve un cavaliere biancovestito, e splendente nel sole appena nato: è Gandalf giunto a confermare la salvezza mattutina del giorno nascente.
«Il Bianco cavaliere stava per travolgere il nemico, e il terrore di vederlo empì tutti di follia. Gli Uomini selvaggi caddero bocconi innanzi a lui, gli Orchi vacillarono e urlando abbandonarono spade e lance. Come fumo nero spinto da vento impetuoso fuggirono via. Gemendo e strillando s’inoltrarono fra gli alberi, nell’ombra che li aspettava e dalla quale mai più sarebbero usciti»[3].
La speranza invase anche il cuore del povero don Camillo adesso – come scrive ancora Lewis – che il cielo era veramente più chiaro.
Accese egli stesso le candele dell’altare, ed erano due candeline, ma gli pareva che facessero tanta luce. E in chiesa c’erano due persone soltanto, ma pareva a don Camillo di non aver mai visto tanta gente, perché una delle due persone era la solita vecchia […]. Ma l’altro era Peppone che non aveva avuto la forza di risalire sul camion e aveva seguito passo passo don Camillo. E, pur non avendo sulle spalle la Croce, aveva partecipato a quella immane fatica come se il peso fosse stato anche sulle sue spalle. E poi, entrato in chiesa e trovandosi vicino alla cassettina delle offerte, aveva infilato nella fessura il biglietto da diecimila datogli da don Camillo.
123, pp. 909-910
Il povero prete chiese al Cristo Crocifisso se fosse dispiaciuto per essere stato portato in una misera chiesina come quella: «“No, don Camillo” rispose il Cristo sorridendo. “È meravigliosa…”»[4]. (123,).
[1] G. Guareschi, 123. Via crucis, in Mondo piccolo. Tutto don Camillo. Volume primo (1-182), a cura di Carlotta e Alberto Guareschi, BUR, Milano 20113, pp. 902-910: pp. 908-909.
[2] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 199428, p. 656.
[3] Ibid., p. 659.
[4] G. Guareschi, 123. Via crucis, p. 910.
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