È giunto al termine l’erto sentiero della malattia di mio marito, che mi è sembrato tanto lungo e faticoso finché lo percorrevamo, ma ora, che son rimasta sola a rimirarne i sassi, mi pare sia durato un lampo.
Due anni e 8 mesi di guerra, con alcune belle battaglie vinte che magari ci hanno un po’ illuso sull’epilogo.
Il tratto finale è stato uno scapicollarsi giù per un burrone, a velocità supersonica verso il fondo. Ci siamo aggrappati a tutto, ma tutto è venuto giù con noi. Tre settimane di carrozzina, solo 5 giorni di letto, 8 ore di incoscienza.
Mentre il suo respiro si accorciava e alleggeriva, lo sguardo fisso in un altrove lontano, speravo che terminasse svelta l’agonia, pregando che tutta quella roba che gli scendeva dalla flebo avesse davvero i mirabolanti effetti palliativi di cui si sente parlare tanto spesso (e a volte a sproposito). Ero lì, ma non potevo partecipare in nessun modo. È molto doloroso rendersi conto così improvvisamente di quanto sia duro e solitario l’ultimo calvario di ciascuno. Si passa di là da soli, pure se abbiamo una folla intorno.
Ci raccontiamo che la morfina non fa sentire nulla, che le nostre carezze mitigano il dolore, che il Mizadolam allevia gli spasmi, ma resta sempre l’atroce dubbio che tutto serva soprattutto a celare ai nostri occhi spettatori gli effetti della sofferenza e che allontani il malato dalla coscienza e da noi. Quella mano non si contrare più perché non c’è il dolore o perché non c’è la forza?
Poi il respiro si ferma, così, qualche secondo di troppo per poter ripartire. Piano piano, il calore del corpo va via, un senso di vago sollievo ti abbraccia, come quando è finita un’estrazione dentale. Solo che non si tratta di un dente, ma di un’anima, che per staccarsi dal corpo ha strappato la carne, perché questa separazione è innaturale, noi siamo fatti per essere vivi, testardamente vivi.
Allora ti dispiace pure di quei cinque minuti che hai trascorso nel bagno, o di quel momento che hai guardato il cellulare invece che il suo viso contratto. Il tempo è finito, non c’è la riserva, la ricarica, il replay. Come l’acqua sporca di una borraccia che finisce e allora ne rimpiangi pure la terra mischiata in mezzo, perché la sete resta.
Poi la gente, l’immenso sincero cordoglio, gli abbracci, i canti, le preghiere, le lacrime, lo sgomento, la condivisione appassionata. Quel coperchio che si chiude.
Ho fotografato il suo viso anche nella bara, fino all’ultima immagine, tutto devo conservare.
Restano le cose che avrei voluto cambiare e che ho sopportato per vent’anni, come il caos dell’area attrezzi, la siepe di lauro troppo alta, la soffitta piena di spartiti polverosi, quel ciliegio sghembo in giardino. Ecco, quelle cose lì ora, all’improvviso, mi sono le più care, non le posso proprio toccare.
Tutto cambia nell’arco di un secondo, anche se ci avevi pensato tanto prima e ti pareva di esserti preparato, ma la differenza tra la vita e la morte è troppo più grande dei nostri pensieri per poter davvero capire, prevedere, immaginare.
Ci si trova bloccati davanti ad un mistero profondo, duro, impenetrabile, ma non estraneo a noi: da quel corpo che non ha più vita, sorge un’onda che ci trafigge, ci spezza, ci cambia. Quello che prima era fuori di noi, rinasce dentro, conficcato nella carne. Senza effetti speciali, senza un momento preciso, senza niente da poter raccontare. Solo va così. Perché la vita vive, punto.
E non si tratta di sentimenti, ma di materia. Anche se non vuoi, anche se non ci credi, anche se non lo sai, la vita è eterna.
Un abbraccio forte e una preghiera sentita al Dio della vita e della consolazione per te e la tua famiglia!