Quest’anno l’8marzo non ha il profumo delle mimose. Non ha il giallo cangiante dei suoi fiori ed il verde brillante delle sue foglie. Ha l’acre odore della polvere da sparo, l’asfissiante miasma del gasolio dei mezzi blindati, il grigio dei mezzi militari, il rosso del sangue dei morti.
Stride, ferisce, fa anche un po’ vergognare, sentire parlare intellettuali e politici, rivolti a noi, donne sicure d’Occidente, donne stressate e un po’ nevrotiche, infelici e dilaniate dal conflitto interiore che questa società ci ha messo dentro, tra la nostra identità di madri, che la natura (e Dio!) ha così profondamente impresso nella nostra carne e nella nostra anima, e quella di lavoratrici (per bisogno molto spesso, ma anche per passione e comunque per culturale necessità alla nostra percezione di “donne realizzate”).
Il fiume di madri che dall’Ucraina scorre inesorabile verso l’Europa mette con le spalle al muro tutte noi. Noi che ci barcameniamo in vite affannose, in mille impegni improrogabili, in mille inutili quisquilie.
Quelle madri portano fisicamente in braccio il futuro. Il futuro delle loro famiglie, di un’intera nazione, di una cultura secolare. È la speranza, tra quelle braccia, che fugge dall’Ucraina e che cerca riparo in un altrove a volte scostante con le madri, a volte retoricamente melenso.
La speranza fugge dall’Ucraina. Ma non muore. Resta viva, custodita dalle donne, come il fuoco le Vestali, in attesa di tempi migliori. Agli uomini il compito di imbracciare le armi, in un disperato (e forse, mi chiedo, anche inutile) tentativo di difesa (hanno senso tutte queste vittime in nome della libertà, se poi questa libertà non ci sarà più nessuno a goderla?). Alle donne un compito ancestrale, ma forse anche il più vero, il più profondamente umano, quello di dare la vita, custodirla, accoglierla. Preservarla per il futuro.
Il privilegio che è loro, ma di tutte noi, di essere deboli e indifese, ma anche immensamente forti nell’assumersi da sole la responsabilità e la cura di figli, dei malati, dei vecchi. Poche lacrime in quegli sguardi che arrivano da est. Volti seri. Concentrati sull’essenziale. Ricchi anche di una fede profondamente sentita e ancora più radicata nelle loro vicissitudini.
Un monito per noi. Non dimentichiamole. Non dimentichiamo ciò che ci rende profondamente donne.
Ancora una volta un contributo che aiuta a leggere la realtà esistente