A febbraio, mese in cui Giorgio Torelli compie gli anni, è stato pubblicato il libro intervista di don Samuele Pinna Cacciatore di buone nuove. Giorgio Torelli, giornalista a modo suo, per l’Editrice Àncora in cui Giorgio Torelli, classe 1928, storico collaboratore del Giornaledi Montanelli e di tante altre prestigiose testate italiane, racconta la sua esperienza di giornalista lunga sessant’anni.
Un cantastorie di «cose viste dal vero»
Il titolo che campeggia in cima a questa pagina dice l’intento di questo libro: si tratta di esporre le confidenze di chi per una sessantina d’anni ha proposto e propone ancora (Torelli scrive settimanalmente sulla Gazzetta di Parma) buone notizie. Si intende, dunque, consegnare al lettore il medesimo stupore che colpisce chiunque ascolti i racconti di bene narrati da Giorgio, vero cantastorie che incanta sia col suo dire sia con la sua penna. Fin dal nostro primo incontro non ha mai cessato di rendermene partecipe, pescando ricordi dalle sue mila e mila storie realmente vissute. Una esistenza, la sua, davvero vòlta a ricercare buone nuove, rifiutando di soffermarsi su un fatto di cronaca pruriginoso ed effimero (il che vuol dire sensazionale solo per qualche giorno e destinato presto all’oblio).
Torelli descrive con stile accattivante autentiche testimonianze di un amore incarnato, scuotendo e suggerendo: «Vedi che è possibile!». Ecco, in sintesi estrema, cosa egli proclama: è possibile amare il bello laddove si posa, fare il bene fraternamente e scegliere la via della verità! Ma guai a etichettare Giorgio come «giornalista cattolico», quasi avesse un partito da difendere, perché egli al contrario – va precisato – è un cattolico che ha esercitato la professione di giornalista. Direi di più: di scrittore. E, oltretutto, con spirito libero, dove – secondo un acuto giudizio di Étienne Gilson –
questa libertà non consiste certo nel non avere né Dio né padrone, ma piuttosto nel non avere altro padrone che Dio, il quale affranca da tutti gli altri padroni. Perché Dio è la sola protezione dell’uomo contro le tirannie dell’uomo.
Oggi, in nessuna colonna di qualsivoglia giornale, si leggono articoli al pari dei suoi: la prosa è unica, la lingua italiana è esaltata così come la sua capacità di giocare con i termini in grado di stendersi in figurazioni delicate e potenti insieme. […] Giorgio Torelli promana la calma e la serenità del sapiente che orchestra lemmi e concetti: artigiano del testo battuto prima a macchina da scrivere, poi corretto a mano e infine fissato sul virtuale di un computer, non è mai «difficile» da intendersi. […] È, de facto, bandita nel suo discorrere letterario ogni superficialità che non permetta di gustare la bellezza del costrutto lessicale e dell’armonia di un pensiero di valore. Ecco perché Torelli è giornalista a modo suo: «Giorgino – diceva di lui Indro Montanelli – ci porta buone notizie». Del resto, non ha scritto solo in qualche occasione degli articoli con tale logica, ma sono migliaia i suoi pezzi concepiti sempre in tal modo! E sono persuaso sia un primato difficile da sottrargli, anche se lui lo desidererebbe sopra ogni cosa.
Eppure non soltanto gli scritti, ma anche le conversazioni con Giorgio si fanno magistero: il modo di intrattenere è di chi sa affascinare. Stare a colloquio con lui è come leggere ad alta voce un libro di Jules Verne o Charles Dickens, con la differenza che qui la realtà vince sulla fantasia. Non è il racconto fine a se stesso che colpisce, bensì il messaggio sempre teso a riconsegnare ai suoi lettori qualcosa di positivo. Sono confidenze che non possono essere mantenute segrete, anzi devono essere proclamate il più possibile, evangelicamente gridate dai tetti, perché portatrici di un insegnamento benefico. «Possono interessare davvero?»: è la domanda che Giorgio ogni tanto mi riproponeva e io in risposta annuivo convinto. Sono storie vere, utili al cuore di ogni uomo, nate dal sano coinvolgimento di un inviato molto speciale che non ha paura di dire quel che va detto. La curiosità di Giorgio, la sua cura nel registrare ogni particolare, l’attenzione viva alle persone lo contraddistinguono, seppur non sappia mai rinunciare a quell’umorismo sostanzioso tipicamente parmigiano (o – mi vien da scrivere – alla Guareschi). Un esempio:
Ma io ti considero figlio d’arte – mi dice una volta –, figlio di infermieri. Tuo padre mi ha raccontato il suo volontariato fra le menti alterate con il rischio della violenza. Tua madre, con una grande serenità, questo e quello, senza drammatizzare nulla. Sei figlio d’arte perché là, nel confessionale o con chiunque tu dialoghi, sei infermiere delle anime, militante, militante! Ed è singolare, tu dici: Ma guarda un po’, dovrei vestirmi di bianco e vesto di nero! Per far notare quanto sia specializzata la tua arte infermieristica.
Ridiamo entrambi di gusto, tanto da farmi uscire pronta una battuta: «Magari un giorno mi vestirò di bianco…». Altra risata conclusa da un: «Magari!!!». […]
In memoriam di Alessandra
Torno da Giorgio con il manoscritto. Si colloquia per ore, finché giunge per me il momento di rincasare. Sono accompagnato come sempre alla porta. Non si tratta solamente di gentilezza: ne sono edotto; è un episodio accaduto tra Giorgio e Marcello Candia, chiamato da lui e da sua figlia Alessandra amichevolmente Marcus. Lo ascolto volentieri, poi vado a rileggermelo nel suo volume, spulciando tra le pagine:
Mi par di ricordare – egli scrive – che ci dicessimo alcune cose significanti, e tuttavia in fretta, quasi in piedi. E mi viene da riflettere quando ripenso a come Marcus racconta l’episodio. Dice e ripete sempre, come se la circostanza fosse eccezionale per un bussatore di porte come lui, talora più sopportato che accolto e tuttavia sempre dolce, mite, sorridente, inflessibile, incoercibile: “Ricordo che mi hai accompagnato all’ascensore”. E fa di quest’episodio d’ovvia accoglienza il primo caposaldo del nostro conoscerci e spartirci.
Quel giorno, mi dice, pertanto, Giorgio: «Ho siglato la mia amicizia con Marcello per averlo accompagnato all’ascensore, vuoi che non lo faccia con te?». Siamo ancora sulla porta e prima di congedarsi il giornalista con i baffi da reggitore, lo sguardo puro, il sorriso pronto, mi chiede, fulmineo, una battuta veloce, quasi sussurrata: «Mia figlia Alessandra dov’è adesso?». Sappiamo entrambi la risposta, ma la pronuncio comunque ad alta voce: «In Cielo!». […] Giorgio, narrazione vivente di fatti, luoghi e persone, esclama e racconta:
Bisogna aver fede! Anche mio padre, che non voleva avere a che fare con i preti […], è spirato mentre gli facevo un crocino sulla fronte. Il Signore l’avrà accolto?
Rispondo che il nostro compito è questo: pregare per la salvezza delle anime. […]
Mi interrogo. Che senso avrebbe l’esistenza se non ci fosse un «per sempre»? Se non ci rincontrassimo? […] Del resto – per citare il mio personale testimonial a riguardo della fede, Bud Spencer –, «la vita non ha senso, l’unico senso è nell’amore e nei legami. Credere in Dio è ciò che mi salva». Come dargli torto? Se la salvezza viene da Dio, allora una giovane ragazza può partire con il padre giornalista per andare dall’altra parte dell’oceano e vedere con i suoi occhi un commendatore milanese investire le sue sostanze per i poveri. Candia mi ritorna alla mente. Alessandra c’era in quel viaggio con suo papà e, tra gli episodi che la vedono protagonista […], uno è legato a lui. Mi ha colpito nella sua semplicità, perché dice la tenerezza tra padre e figlia persa nelle piccolezze delle cose, come il pum-pum sul muro della stanza per dirsi la buonanotte. Rileggo le righe presenti nel libro Da ricco che era e, mentre lo faccio, chiedo ad Alessandra, al venerabile Marcello, a tutti i Santi incontrati da me e da Giorgio di vegliare su noi: c’è gioia più grande nel sapere che i nostri cari in Paradiso stanno intercedendo per noi?
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