Le varie denominazioni protestanti, gli ordini religiosi cattolici che gestivano le scuole e i vescovi locali (così come il Governo canadese) hanno in realtà da tempo espresso il proprio rammarico per quanto accaduto, formalizzando delle scuse e impegnandosi a sostenere i Nativi nella loro domanda di giustizia; molte diocesi canadesi sono oggi attivamente impegnate con le comunità indigene in un cammino di riconciliazione.
Non vi è stata una dichiarazione ufficiale della Santa Sede, ma già nel 2009 Benedetto XVI ha ricevuto alcuni leader Aborigeni, esprimendo la propria sofferenza e solidarietà per le loro sofferenze: si è trattato di un momento importante e di grande conforto per i sopravvissuti presenti, tuttavia molte voci esprimono il desiderio, da parte dei Nativi, di vere e proprie scuse da parte della più alta autorità della Chiesa.
Di recente, la Conferenza Episcopale Canadese ha annunciato che il prossimo dicembre alcuni rappresentanti dei maggiori gruppi Indigeni canadesi si recheranno a Roma per incontrare Papa Francesco, che ha invitato le autorità politiche e religiose a continuare
a collaborare con determinazione per fare luce sulla triste vicenda e impegnarsi umilmente in un cammino di riconciliazione e di guarigione.
Al di là delle scuse formali (che certo possono essere importanti in un percorso di riconciliazione, pur non essendo risolutive), e della necessità – ove possibile – di dare giustizia a quanti hanno subito veri e propri abusi (nei casi più recenti, l’autore materiale può essere ancora in vita e dovrebbe essere chiamato a rispondere direttamente delle proprie azioni), come cristiani ci interroga certamente la domanda di una vittima:
what are they preaching here about love? Where is that love? You know. There was no love for us.
Nelle scuole c’erano bambini provenienti da famiglie di religione cristiana, ma anche altri che non avevano mai visto una suora o un crocifisso prima di arrivare in collegio. Che “incontro” è stato?
Moltissimi di loro hanno abbandonato ogni pratica religiosa cristiana dopo aver lasciato la scuola, e sono ritornati alla spiritualità indigena. Sarebbe stato così, se avessero ricevuto una testimonianza diversa, se avessero incontrato un atteggiamento più amorevole, più comprensivo nei confronti di bambini che già vivevano il trauma della separazione dalla famiglia, più rispettoso della loro cultura? È troppo tardi per scoprirlo.
Per altri, è difficile conciliare le proprie radici spirituali con la fede cristiana: si poteva evitare di creare in loro questo conflitto? Forse sì, se non si fosse cercato di imporre come “cristiano” ciò che, invece, era semplicemente “europeo”…
È un problema complesso, quello della cooperazione delle diverse Chiese con quello che è stato definito come un vero e proprio “genocidio culturale”: molti sopravvissuti ricordano di essere stati duramente puniti soltanto per aver parlato la loro lingua, o perché troppo lenti ad eseguire le istruzioni date in una lingua per loro straniera; rimpiangono di aver “perso” la propria lingua, al punto – in alcuni casi – di non essere più in grado di comunicare con i genitori al ritorno a casa.
La cultura e la spiritualità tradizionale indigena erano denigrate e proibite come “pagane”; una ex alunna racconta di aver ricevuto un totem in miniatura per il suo compleanno e che una suora, a cui lo aveva mostrato con orgoglio, lo gettò via; tanti riferiscono che all’ingresso nelle scuole venivano loro tagliati i capelli e che gli abiti e le scarpe tradizionali (cuciti con cura dalle madri) erano buttati nella spazzatura o bruciati, per essere sostituti con vestiti di foggia europea.
Forse non si era neppure consapevoli della violenza che queste azioni rappresentavano per i bambini, proprio perché non vi era conoscenza, comprensione né rispetto per le loro tradizioni.
Diversi ex alunni ricordano di essere stati portati a vergognarsi delle proprie origini: una ex allieva ancora ricorda l’immagine, contenuta in un libro di testo, di due Gesuiti assassinati dai “selvaggi”, rappresentati con uno “sguardo da far raggelare il sangue”; un’altra racconta di aver desiderato ardentemente essere bianca e di essere giunta a disprezzare i genitori per la loro pelle scura e perché non parlavano inglese. Era comune per il personale scolastico assegnare ai bambini nuovi nomi (che suonassero “europei”) o addirittura dei numeri.
Tutto questo contribuiva ad un senso di perdita della propria identità, di bassa autostima e di vergogna per le proprie origini, che ha segnato intere generazioni e che richiederà tempo e attenzione perché si possa guarire.
Certo, si potrebbe dire, “erano altri tempi”
I missionari non erano immuni dai pregiudizi dei loro contemporanei, e molti di loro probabilmente ritenevano in buona fede di fare l’interesse dei bambini Nativi, dando loro un’educazione conforme alle norme sociali “europee”.
Sorgono però interrogativi analoghi a quelli posti dalla vicenda delle Mother and Baby Homes irlandesi: la Commissione in quel caso evidenziava che la responsabilità del trattamento riservato alle madri non sposate era da ascrivere soprattutto alle norme sociali, alla preoccupazione delle famiglie per la propria rispettabilità e reputazione… atteggiamenti che i sacerdoti e le religiose responsabili di questi istituti avevano “assorbito”, più che “influenzato”.
Ognuno di noi, battezzato o no, nasce e cresce in un contesto, ne assorbe idee e preconcetti, e forse non gli può essere rimproverato di non sapersene emancipare; eppure – mentre il mondo critica la Chiesa perché non è abbastanza “al passo con i tempi” – in qualche modo si aspetta, da chi pretende di conoscere la Verità, che “ne sappia di più” e che sia capace, quando occorre, di discostarsi dall’opinione dominante.
In un libro sul tema degli abusi sessuali nella Chiesa, P. Philippe Lefebvre osserva che gli argomenti comunemente utilizzati per giustificare le mancanze dei responsabili nel reagire ai casi di abuso («si è sempre fatto così», «non si conoscevano le conseguenze per le vittime», «si temeva lo scandalo»…) possono forse essere comprensibili, ma costituiscono l’ammissione che si è perduto lo “Spirito di profezia”: quello che dovrebbe renderci immuni (o quasi) allo “Spirito dei tempi”.
Nel famoso caso Buck v. Bell, l’unico giudice della Corte Suprema americana a votare contro la sterilizzazione forzata di una giovane donna ritenuta “debole di mente” fu il Giudice Butler, cattolico: lo fece contro il parere dei maggiori scienziati e giuristi del tempo, che lo incitavano a votare diversamente «nonostante la sua religione».
Il Beato Bartolo Longo, che si ostinava ad accogliere ed educare i figli dei detenuti nonostante la Scuola Positiva allora dominante in criminologia li ritenesse “delinquenti nati” ed irrecuperabili, alle critiche rispondeva:
Dove la scienza si fa nemica della carità io lascio la scienza e seguo la carità.
“Scienza” potrebbe essere sostituito con “cultura”, “politica”, o con qualsiasi altra fonte di autorità e potere.
Dovremmo saper riconoscere quando, nella nostra storia, siamo venuti meno a questo “criterio” che per i seguaci di Cristo dovrebbe essere il primo, e forse (come ha commentato uno dei testimoni alla Truth and Reconciliation Commission) prima di tutto «riconciliarci con lo Spirito» per poterci riconciliare con gli altri.
Non ho più voglia di pensare tutto è marcio preferisco pregare, sono stanca dove c’è il male, per favore risparmiati questo. Ave Maria