La santificazione, senza la quale nessuno vedrà mai il Signore.
Eb 12,14
In questo testo parve bene allo Spirito Santo comunicarci in poche parole una verità religiosa essenziale – particolarità questa che la rende più incisiva, mentre la verità in se stessa è affermata in un modo o nell’altro in ogni parte della Scrittura. Ripetutamente ci viene detto che la santificazione dei peccatori è il grande scopo che nostro Signore ebbe di mira nell’assumere la natura umana, e che quindi nessuno, tranne i santi, sarà accettato per amor suo nell’ultimo giorno. Tutta la storia della redenzione, l’alleanza di misericordia in tutte le sue parti e disposizioni, attestano la necessità della santità per la salvezza, altrettanto quanto lo attesta anche la nostra coscienza. Ciò che altrove è implicito nella narrazione o esplicitato in forma di precetto, nel testo viene dottrinalmente ribadito come del tutto necessario, come la conseguenza di una legge irreversibile della natura delle cose e come la determinazione imperscrutabile della volontà divina. Ora, qualcuno potrà chiedere: «Come mai la santità è una qualificazione necessaria per essere ammessi in paradiso? Perché la Bibbia ci ingiunge tanto strettamente di amare, temere Dio, e obbedirgli, di essere giusti, onesti, miti, puri di cuore, disposti al perdono e all’abnegazione, religiosamente ispirati, umili e rassegnati? L’uomo sa bene di essere debole e corrotto; perché gli si comanda di essere così religioso e soprannaturale? Perché gli si richiede (con quel forte linguaggio della Scrittura) di diventare “una nuova creatura”? Dato che l’uomo è per natura quello che è, non sarebbe un atto di più grande misericordia, da parte di Dio, salvarlo semplicemente senza questa santità, che è per lui così difficile, e tuttavia (come sembra) è per lui così necessaria?».
Ma è una questione, questa, che non abbiamo il diritto di porre. È sufficiente, per un peccatore, sapere che una via gli è stata aperta per la salvezza, senza ulteriori spiegazioni sul perché questa e non un’altra via sia stata scelta dalla divina sapienza. La vita eterna è «il dono di Dio». Senza dubbio Dio può prescrivere a che condizioni egli lo concede; e se egli ha stabilito che la via della vita sia la santità, ciò è sufficiente; non spetta a noi indagare perché egli abbia stabilito così.
Però la questione può essere proposta con riverenza e nell’intento di accrescere la comprensione della nostra condizione e delle nostre prospettive; in tal caso il tentativo di rispondervi sarà utile, se condotto con sobrietà. Procederò dunque a esporre una delle ragioni per cui, secondo la Scrittura, un’effettiva santità è necessaria, come il testo afferma, per la futura felicità.
Essere santi è, con le parole che ci suggerisce la nostra Chiesa, avere «la vera circoncisione dello Spirito», cioè: separarsi dal peccato, odiare le opere del mondo, la carne e il demonio; compiacersi dell’osservanza dei comandamenti di Dio; comportarsi come egli vorrebbe, che ci comportassimo; vivere abitualmente come se vedessimo il mondo futuro, come se avessimo spezzato i legami di questa vita e fossimo già morti. Perché mai non possiamo essere salvi senza possedere une tale mentalità e temperamento?
Rispondo così: se una persona non santa fosse ammessa in paradiso, non sarebbe felice di trovarvisi; e non sarebbe perciò misericordia permetterle di entrare.
È molto facile per noi ingannarci, e considerare il paradiso un luogo come la terra; un luogo dove ognuno può scegliere e trovare il piacere che fa per lui. Noi vediamo che in questo mondo le persone attive hanno i loro divertimenti, e così le persone casalinghe; i letterati, gli scienziati, gli uomini politici, hanno i loro svaghi e piaceri. Da ciò passiamo a immaginare che nell’altro mondo sarà lo stesso. La differenza unica sarebbe che qui (come sappiamo bene) non siamo sempre sicuri, ma lì supponiamo che saremo sempre sicuri di trovare ciò che cercheremo. In conformità concludiamo che chiunque, quali che siano le sue abitudini, i suoi gusti, o modi di vita, una volta che fosse ammesso in paradiso, sarebbe felice di trovarvisi. Non neghiamo del tutto che per il mondo futuro una qualche preparazione ci sia necessaria; ma non stimiamo esattamente la sua entità e importanza. Pensiamo di poterci riconciliare con Dio quando vogliamo, come se null’altro sia richiesto se non un’attenzione temporanea, un tantino più dell’ordinario, ai doveri religiosi. Pensiamo che basti una certa maggiore austerità, durante l’ultima malattia, nel presenziare alle funzioni religiose, come gli uomini d’affari sbrigano la corrispondenza prima di un viaggio o ordinano le loro carte per presentare un bilancio. Ma un’opinione simile, benché comunemente adottata, cade appena la si formula. Il paradiso, infatti, come è chiaro dalla Scrittura, non è un luogo dove si possono perseguire contemporaneamente obiettivi diversi e discordanti, come avviene quaggiù. Qui ognuno può fare quello che gli piace, ma lì bisogna fare quello che piace a Dio. Sarebbe presunzione cercare di determinare i modi di realizzarsi della vita eterna che i giusti passeranno alla presenza di Dio, o negare che tale stato che “occhio non vide, né orecchio udì”, né mente potrebbe concepire, possa comprendere un’infinita diversità di interessi e di occupazioni.
Tuttavia questo ci è stato detto chiaramente: quella vita futura si svolgerà alla presenza di Dio, in un senso che non si applica per la vita presente; cosicché può essere meglio descritta come una interminabile e ininterrotta adorazione dell’Eterno Padre, Figlio e Spirito Santo. «Essi lo servono giorno e notte nel suo santuario, e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro … l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita». Ancora: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza» (Ap 7, 15.17; 21,23-24). Questi passi di S. Giovanni sono sufficienti per rammentarcene molti altri.
Il paradiso non è dunque comparabile con questo mondo; miglior termine di paragone sarebbe una chiesa, dove non si sentono i discorsi del mondo, non si presentano programmi per scopi temporali, né piccoli, né grandi; non vengono date informazioni su come consolidare i propri interessi mondani, su come estendere la propria sfera di influenza, su come accrescere il proprio credito. Queste cose possono essere giuste a loro modo, se non vincoliamo ad esse il nostro cuore; pure (ripeto) sono cose di cui certamente non si sente parlare in chiesa. Quivi sentiamo parlare unicamente e soltanto di Dio. Lo lodiamo, lo adoriamo, a lui cantiamo, lo ringraziamo, lo confessiamo, ci doniamo a lui, e chiediamo la sua benedizione. Perciò la chiesa è simile al paradiso, perché sia nell’una che nell’altro vi è un unico tema che regna sovrano e viene dispiegato, la religione.
Supponendo dunque che, invece di sentirci dire che nessuna persona irreligiosa potrebbe servire e officiare a Dio in paradiso (o «vederlo», come dice il testo), ci venisse detto che nessuna persona irreligiosa può adorarlo o contemplarlo spiritualmente in chiesa, non comprenderemmo immediatamente il senso di tale affermazione? Comprenderemmo bene che, se venisse qui una persona che ha lasciato andare la sua mente dove la natura o il caso la portava, senza alcuno sforzo deliberato e abituale verso la verità e la purezza, non vi troverebbe alcun piacere, ma si annoierebbe ben presto di questo luogo; in questa casa di Dio egli sentirebbe parlare soltanto di quello che poco o nulla lo interessa, e per nulla delle cose che risvegliano in lui speranze e timori, simpatie e tensioni. Se dunque un uomo privo di religione (supponendo la cosa possibile) fosse ammesso in paradiso, senza dubbio proverebbe una grande delusione. Prima di arrivarvi effettivamente, egli si immaginerebbe di essere diretto verso il luogo dove poter essere felice; ma una volta arrivato, egli non sentirebbe altri discorsi se non quelli da cui qui sulla terra si era stornato; non sentirebbe altre proposte se non quelle verso le quali egli aveva provato insofferenza e disprezzo: nulla che lo avvinca a qualcos’altro nel suo universo e lo faccia sentire a casa sua, nulla in cui entrare e trovare gioia. Si sentirebbe una creatura isolata, esclusa, per decisione del Potere supremo, da quegli interessi ai quali il suo cuore era ancora legato. Anzi, si troverebbe in presenza di quel supremo Potere al quale sulla terra non era mai riuscito a pensare seriamente, e al quale egli ora guarderebbe come il distruttore di tutto ciò che gli era prezioso e caro. Ah! Egli non potrebbe sopportare il volto del Dio vivente; il Dio santo non sarebbe oggetto di gaudio per lui. «Lasciaci stare! Che abbiamo a che fare con te?»: è il solo pensiero e desiderio delle anime impure, nel momento stesso in cui riconoscono la sua maestà. Nessuno, se non il santo, può fissare lo sguardo sul Dio santo; senza santità nessuno può reggere alla vista del Signore.
Quando dunque pensiamo di prender parte alla gioia del paradiso senza santità, siamo sconsiderati come se supponessimo di poterci coinvolgere nel culto cristiano qui sulla terra, senza che in una certa misura sia una cosa nostra. Una mente sbadata, sensuale, incredula, priva dell’amore e timore di Dio, con visuali ristrette e terrene, trascurata nei suoi doveri, ottenebrata nella coscienza, una mente contenta di sé e riottosa alla volontà di Dio, proverebbe tanto poco piacere, nell’ultimo giorno, alle parole: «Entra nel gaudio del tuo Signore», quanto ora all’invito: «Preghiamo». Anzi, molto meno, perché, mentre in chiesa possiamo rivolgere i nostri pensieri ad altri oggetti e dimenticare di essere sotto lo sguardo di Dio, ciò in paradiso non sarà possibile.
Possiamo renderci conto che la santità, o interiore separazione dal mondo, è necessaria alla nostra ammissione al paradiso, perché il paradiso non è paradiso, cioè luogo di felicità, tranne che per i santi. Vi sono indisposizioni fisiche che alterano i gusti, cosicché i sapori più dolci diventano sgraditi al palato; e indisposizioni che alterano la vista e stendono un alone cupo sul bel volto della natura. In modo simile, vi è una malattia mortale che lesiona la vista e il gusto interiore; e nessuno che ne sia affetto è nella condizione di gustare ciò che la Scrittura chiama «la pienezza della gioia alla presenza di Dio, e felicità senza fine alla sua destra».
Anzi, mi arrischierò a dire di più; è terribile, ma è giusto dirlo: se volessimo immaginare una punizione per un’anima impura e reproba, forse non potremmo pensarne una maggiore del convocarla in paradiso. Il paradiso sarebbe un inferno per una persona irreligiosa. Sappiamo quanto infelici possiamo sentirci, quando ci troviamo soli fra stranieri o fra persone di gusti e abitudini diversi dai nostri. Quanto sarebbe sgradevole, se, per esempio, dovessimo vivere in un paese straniero, fra gente con facce strane, mai viste prima, e dalla lingua incomprensibile. E questa è solo una debole illustrazione della solitudine di una persona dalle disposizioni e dai gusti terreni, venuta a cadere nella società dei santi e degli angeli. Come vagherebbe sperduta fra le corti del paradiso! Non troverebbe nessuno come lei; riconoscerebbe attorno a lei soltanto i segni della santità di Dio, e questi la farebbero rabbrividire. Si sentirebbe sempre alla sua presenza. Non potrebbe rivolgere i suoi pensieri altrove, come fa ora, quando la coscienza le rimorde. Saprebbe che l’Eterno
Sguardo è sempre su di lei; e quello Sguardo di santità, che è gioia e vita per le creature sante, le apparirebbe come uno sguardo d’ira e di castigo. Dio non può cambiare la sua natura. Deve essere sempre santo. Ma poiché egli è santo, nessuna creatura non santa può essere felice in paradiso. Il fuoco non si appicca al ferro, ma alla paglia. Non sarebbe fuoco se non facesse così. Altrettanto il paradiso stesso sarebbe fuoco per quelli che volentieri attraverserebbero il grande abisso per sfuggire ai tormenti dell’inferno. Il dito di Lazzaro non farebbe che aumentare la loro sete. Il paradiso che sta sopra di loro, sarebbe una cappa di bronzo per loro.
Ho spiegato almeno in parte perché la santità ci è prescritta come la condizione da parte nostra per essere ammessi in paradiso. È una necessità che deriva dalla natura delle cose. Non si vede come possa essere diversamente. Ricorderò ora due importanti verità che sembrano conseguire a ciò che è stato detto.
1. Se una certa forma mentis, un certo stato del cuore e degli affetti, sono necessari per entrare in paradiso, le nostre azioni concorreranno alla nostra salvezza, principalmente in quanto tenderanno a produrre o ad accentuare tale forma mentis. Le opere buone (come sono chiamate) sono richieste, non perché abbiano alcunché di meritorio in se stesse, non perché abbiano di per sé la capacità di stornare l’ira di Dio dai nostri peccati, o di guadagnarci il paradiso, ma perché sono i mezzi, con l’aiuto della grazia di Dio, per rafforzare ed evidenziare quel principio di santità che Dio ci ha messo nel cuore, e senza il quale (come dice il testo) non possiamo vedere Dio. Più numerosi sono gli atti di carità, di abnegazione, di sopportazione, tanto più, evidentemente, le nostre menti riceveranno l’impronta di un carattere caritatevole, altruista, paziente. Quanto più frequenti sono le nostre preghiere; quanto più umili, pazienti e religiose sono le nostre attività quotidiane, tanto più questa comunione con Dio, queste sante opere, saranno i mezzi per santificare i nostri cuori, e prepararci per la futura presenza di Dio. Gli atti esterni, compiuti per coerenza ai principi, creano degli abiti interiori. Ripeto, ciascun atto di obbedienza alla volontà di Dio, le buone opere (come sono chiamate), ci sono proficue in quanto gradualmente ci separano dal mondo dei sensi e imprimono nei nostri cuori un carattere soprannaturale.
E chiaro quali siano le opere che non concorrono alla nostra salvezza: tutte quelle che, o non hanno l’effetto di cambiare il nostro cuore, o hanno un effetto negativo. Che cosa si dovrà dire di quanti pensano che sia una cosa facile piacere a Dio, e raccomandarsi a lui? Di quanti lo servono stentatamente e chiamano ciò il cammino della fede e se ne dichiarano soddisfatti? Siffatte persone – è fin troppo evidente – invece di avvantaggiarsi dei loro atti di benevolenza onestà, o giustizia, possono esserne (potrei perfino dire) danneggiate. Infatti, questi atti, per quanto buoni in se stessi, sono compiuti per alimentare, in queste persone, uno spirito cattivo, uno stato d’animo corrotto – cioè amor proprio, presunzione, fede in se stessi -, e non fanno sì che queste persone volgano lo sguardo dal mondo al Padre degli spiriti. In modo simile, gli atti puramente esteriori di venire in chiesa e di recitare orazioni, che sono evidentemente dei doveri per tutti, sono veramente proficui soltanto per quelli che li compiono con spirito soprannaturale. Perché soltanto queste persone compiono queste opere ad emendamento del loro cuore; mentre persino la più esatta devozione esteriore non è utile, se non lo rende migliore.
2. Ma ci sono altre conseguenze da osservare. Se la santità non consiste semplicemente nel compiere un certo numero di buone azioni, ma consiste nel carattere interiore che ne consegue, con la grazia di Dio, nel compierle, quanto lontana da quella santità è la moltitudine degli uomini! Essi non sono obbedienti nemmeno nelle opere esteriori che costituiscono il primo gradino per giungervi. Devono essere persino istruiti a compiere opere buone, come mezzo per cambiare il loro cuore, che è il fine. Ne consegue immediatamente, anche se la Scrittura non lo afferma esplicitamente, che nessuno è in grado di prepararsi per il paradiso, cioè di diventare santo, in breve tempo. Per lo meno noi non vediamo come ciò sia possibile; e ciò, anche se si tratta di una semplice deduzione della ragione, è un pensiero serio. Ma purtroppo! Come ci sono persone che pensano di salvarsi con qualche ristretto adempimento, così ve ne sono altre che suppongono di poter essere salve da un momento all’altro per mezzo di una fede improvvisata e facilmente fatta propria. Moltissimi uomini che vivono nella dimenticanza di Dio, tacitano la loro coscienza, quando è agitata, riproponendosi di pentirsi in futuro. Quanto spesso si trascinano così, finché la morte non li sorprende! Ma supporremo che essi effettivamente comincino a pentirsi un certo giorno. Anzi supporremo che Dio onnipotente li perdoni. e li ammetta in paradiso. Nulla più di questo è richiesto? Saranno adatti a servirlo? Ma non è questo il punto sul quale ho insistito, che cioè lo stato in cui si trovano non lo consentirà loro? Non è stato provato che, anche se ammessi colà senza un mutamento del cuore, non vi troverebbero piacere? E un mutamento del cuore può avvenire in un giorno? Nemmeno il più superficiale può mutare così rapidamente. Possiamo cambiare con una parola per intero la nostra mentalità e il nostro carattere? Non è la santità il risultato di molti pazienti e ripetuti sforzi di obbedire, che gradualmente agiscono su di noi, e che dapprima modificano e poi cambiano il nostro cuore? Non osiamo, certo, mettere limiti alla misericordia e al potere di Dio, quanto ad effettuare pentimenti tardivi nella vita, anche dove egli ci ha rivelato la normalità del suo governo morale; pure è certamente nostro dovere tenere fermamente di fronte a noi e mettere in pratica quelle verità generali che la sua Parola ha enunciato. La sua santa Parola ci ammonisce in vari modi che, come nessuno che non sia santo troverà felicità in paradiso, così nessuno può imparare ad essere tale in breve tempo, e quando vuole. Ciò risulta implicito nel testo che menziona una qualificazione che sappiamo richiedere ordinariamente del tempo prima che la si possa acquisire. Ciò è chiaramente fatto intendere nella parabola dell’abito nuziale, (Cf. Mt 22,11; 25,1) nella quale l’interiore santificazione è presentata come una condizione distinta dall’accettazione dell’offerta di misericordia, e da non perdere negligentemente di vista nei nostri pensieri, come se fosse una necessaria conseguenza di essa. D’altra parte, la parabola delle dieci vergini, che ci dimostra che è necessario essere forniti dell’olio di santità per incontrare lo sposo, evidenzia il tempo richiesto per procurarselo. Da parte loro le Lettere di S. Paolo ci assicurano che è talmente possibile presumere della grazia divina, da lasciasi sfuggire il tempo opportuno e rinchiudersi nella condanna già prima del termine della propria vita.
Desidero parlarvi, fratelli miei, non come se foste estranei alle misericordie di Dio, ma, al contrario, proprio perché siete partecipi dell’alleanza di grazia in Cristo, e proprio per questa ragione vi trovate in speciale pericolo, dato che soltanto quelli che hanno avuto tale privilegio possono incorrere nel peccato di renderlo vano. D’altra parte nemmeno parlo a voi quasi foste peccatori inveterati e caparbi, esposti al rischio imminente di compromettere, o all’eventualità di aver già compromesso, la vostra speranza del paradiso. Ma temo che vi siano di quelli che, se esaminassero accuratamente la propria coscienza, sarebbero costretti ad ammettere di non aver fatto del servizio di Dio il loro primo e maggiore impegno; e temo che la loro obbedienza, per chiamarla così, sia stata una routine nella quale il loro cuore non ha avuto parte, e che abbiano agito rettamente nel mondo soprattutto per riguardo ai loro interessi mondani. Temo vi siano alcuni che, quale che sia la loro religiosità, hanno tali timori al proprio riguardo, da convincerli che dovranno decidersi un giorno o l’altro ad obbedire a Dio con maggiore esattezza, timori tali da convincerli di peccato, ma non sufficienti a dar loro il senso della sua nefandezza o della sua pericolosità. Tali persone si prendono gioco del tempo riservato alla misericordia. Ottenere il dono della santità è il lavoro di una vita. Nessuno sarà mai perfetto quaggiù, tanto incline al peccato è la nostra natura. Nel procrastinare il giorno del pentimento, queste persone rimandano ad alcuni giorni incerti, quando son venuti meno la forza e il vigore, quell’opera per la quale l’intera vita basta appena. Tale opera è grande e ardua oltre ogni dire. Vi è molto residuo di peccato persino nel migliore degli uomini, e «se il giusto a stento si salverà, che ne sarà dell’empio e del peccatore?» (1Pt 4,18). La loro condanna può giungere in ogni istante; e se questo pensiero non deve far disperare per oggi, deve sempre far tremare per domani.
Forse altri potranno dire: «Non ignoriamo il potere della religione e entro certi limiti la amiamo; abbiamo sani principi, veniamo in chiesa a pregare; questa è la prova che siamo preparati per il paradiso; siamo salvi, e quanto è stato detto non vale per noi». Non siate, fratelli miei, nel numero di costoro. Un’importante prova del nostro essere veri servi di Dio è il nostro desiderio di servirlo meglio; e state pur certi che chi è contento del proprio avanzamento nella santità cristiana, è per lo meno in stato di cecità, e forse in grande pericolo. Se siamo realmente toccati dalla grazia della santità, aborriremo il peccato come qualcosa di vile, irrazionale, e depravante. Molti, è vero, si accontentano di visioni parziali e confuse della religione, e di motivazioni ambigue. Non accontentatevi di qualcosa di meno della perfezione; esercitatevi giorno dopo giorno a crescere in conoscenza e in grazia; cosicché possiate alla fine presentarvi alla presenza di Dio onnipotente.
In conclusione: mentre noi qui fatichiamo per conformare i nostri cuori al modello della santità del Padre nostro celeste, ci è di conforto sapere che non siamo lasciati a noi stessi, ma che lo Spirito Santo ci è vicino con la sua grazia, e ci rende capaci di dominare e mutare le nostre menti. È un conforto e un incoraggiamento, perché è una cosa inquietante e terribile sapere che Dio opera in noi e attraverso di noi. (Cf. Fil 2,12.18) Noi siamo strumenti, e soltanto strumenti, per la nostra salvezza. Nessuno dica che lo scoraggio, e che gli propongo un impegno al di là delle sue forze. Tutti noi abbiamo i doni della grazia datici in consegna fin dalla giovinezza. Lo sappiamo bene, ma non sfruttiamo il nostro privilegio. Ci facciamo idee codarde circa le difficoltà, e di conseguenza non sperimentiamo la grandezza dei doni che ci sono dati per farvi fronte. Se poi avviene che ci rendiamo conto fino in fondo dell’entità dell’opera che ci è richiesta, passiamo subito a pensare che Dio sia un padrone severo, che pretende troppo da una razza peccatrice. Stretta davvero è la via della vita, ma infinito è l’amore e il potere che Dio esplica per guidarci attraverso essa, tramite la Chiesa, continuatrice di Cristo.
Bl. John Henry Newman, PPS I,I in italiano: Newman, Sermoni sulla Chiesa… EDS Bologna 2004, 837-848.
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