Lo stile di prossimità di Papa Francesco ha incluso un mezzo – il telefono – che non sembra aver suscitato il nostro interesse. La telefonata “che allunga la vita”, come recitava negli anni ’90 un notissimo spot, è probabilmente il modo più elementare di fare il bene senza incomodarsi troppo, permettendoci di raggiungere l’altro restando a casa. Eppure se c’è un “distanziamento” che, nelle nostre comunità ecclesiali, viviamo da anni, anche prima del tristissimo exploit del Covid19, e senza bisogno di bollini adesivi, transenne e quant’altro ci ricordi di stare adeguatamente distaccati dall’altro, è proprio il “distanziamento telefonico” che sembra impedirci di digitare nel display il numero di telefono del prossimo… meno prossimo e iniziare una conversazione dalla domanda forse più temuta e amata al tempo stesso: “Come stai?”.
L’ “uomo venuto dalla fine del mondo” ci ha insegnato – in questi anni – come toccare, attraverso una semplice telefonata, dolori profondi, drammi insensati, gioie autentiche, speranze intense di persone poco o per nulla conosciute. Come farsi paolinamente “tutto a tutti”, sprofondati tranquillamente nella poltrona di casa nostra, magari con un bicchiere della nostra bevanda preferita in mano, le pantofole, il trucco disfatto e i capelli in disordine (se non siamo habitués delle videochiamate). Come essere “buoni samaritani”, portando, con il minimo sforzo della parola, la “croce” e la “gloria” dell’altro. Eppure il bene è parso talmente a portata di mano che, persino in questa pandemia, dove i mezzi di comunicazione ci hanno impedito di sprofondare in una solitudine devastante e la maggior parte di noi possiede abbonamenti telefonici che permettono chiamate illimitate, il semplice gesto di una telefonata all’altro ci è sembrato talvolta avere un prezzo così alto da rinunciare a pagarlo.
Intendiamoci: abbiamo certamente tartassato di telefonate i nostri parenti e amici, per il desiderio di sentirci ancora vivi e uniti, e siamo stati investiti da un flusso di comunicazione dei nostri cari nello stesso stile, in questo ormai lungo periodo in cui il perimetro delle nostre case è diventato lo spazio de-limitante dei nostri pensieri e forse anche dei sentimenti. Chi ha, però, pensato di chiamare l’altro più… lontano? Estraneo? Solo? Nemico? Quanti di noi hanno pensato che la telefonata di un membro di una comunità ecclesiale – che ci conosce poco ma è parte di quella stessa Comunione con Dio e con i fratelli che si vive nell’Eucaristia – potesse aprire ampi spiragli di luce nella vita altrui? Nella Sacramentum Caritatis Benedetto XVI ha scritto che
il culto a Dio nell’esistenza umana non è relegabile ad un momento particolare e privato, ma per natura sua tende a pervadere ogni aspetto della realtà dell’individuo. Il culto gradito a Dio diviene così un nuovo modo di vivere tutte le circostanze dell’esistenza in cui ogni particolare viene esaltato, in quanto vissuto dentro il rapporto con Cristo e come offerta a Dio.
Quanti piani pastorali e lettere alle comunità hanno inserito – ora che la pandemia ha messo a nudo le nostre esigenze più vere ed elementari – il “ministero del telefono”? Raggiungere tutti – dando la preferenza a coloro che vivono più ai margini delle nostre parrocchie – potrebbe costituire la porta d’ingresso per agganciare davvero la vita dell’altro, i suoi bisogni veri. Non si tratta (come abbiamo visto fare a tanti uomini di Dio davvero egregiamente) soltanto di celebrare la Santa Messa in diretta sui social o di portare sui nostri schermi catechesi e lectiones divinæ: ne abbiamo avuto bisogno e ne abbiamo ancora. Oltre alla necessità spirituale, collettiva e personale, c’è anche un bisogno di contatto umano, di sapere che qualcuno ha cura di noi, di avere la certezza che, se persino i miei familiari si dimenticassero di me, c’è un parroco e una comunità che ha a cuore la mia persona e che, al tempo stesso, con la sua testimonianza, mi educa a fare lo stesso con gli altri.
Nel 2016, Francesco concludeva così il suo discorso alla comunità del Pontificio Seminario Regionale Pugliese Pio XI:
voglio finire con una icona, una icona senza una persona, ma che io ho visto da ragazzo tante volte: il telefono – perché non c’era la segreteria telefonica, non c’erano i telefonini – il telefono sul comodino del parroco. Questi bravi preti, che si alzano a qualsiasi ora della notte per andare da un malato, a dare i sacramenti. “Ma io devo riposarmi… Il Signore salva tutti… Stacco il telefono”. Questo [la disponibilità] è lo zelo apostolico, questo è sciogliere [consumare] la vita al servizio degli altri. E alla fine cosa ti resta? Cosa? La gioia del servizio del Signore!
Papa Francesco, 10 dicembre 2016
I “bravi preti” – per usare la stessa espressione di Papa Francesco – saranno indubbiamente disponili, se chiamati, per correre ovunque ci sia un bisogno non rimandabile. Molto del fare “ecclesiale” personale e comunitario passa proprio dalla possibilità di rendersi sempre più “raggiungibili”. Essere “sportelli ascolto” è una modalità che la Chiesa ben conosce con sacerdoti e laici impegnati proprio in questa felice azione. Si potrebbe tuttavia riflettere anche su quanto sia necessario “raggiungere” oltre che dare la disponibilità di poter essere raggiunti. Domandarsi se molti dei santi che veneriamo abbiano atteso che un bisogno si manifestasse o lo abbiano intercettato prima. Interrogarsi su quanto sia più utile, in termini di carità evangelica e di zelo apostolico, dedicare un’ora del proprio tempo a fare i samaritani del telefono piuttosto che spendersi in altre attività, pur lodevoli, che non riescono tuttavia a tradurre la prossimità del pastore al proprio gregge.
Cosa fare allora? Al di là di chiedersi cosa potrebbe fare ognuno di noi, nel proprio orticello di azioni e parole, – e si sa che ognuno di noi battezzati può davvero fare tanto, come ricordava, con estrema semplicità, quell’oro olimpico nella specialità del bene senza se e senza ma che è stata Santa Teresa di Calcutta – occorrerebbe, a livello di comunità ecclesiali, fare qualcosa di concreto, costante, organizzato. Forse se gli stessi sacerdoti prendessero a cuore questo vivo bisogno del popolo di Dio, di essere accompagnato personalmente nei momenti cupi del dolore ma anche nelle “pieghe prosaiche del tempo”, per usare un’efficace immagine di don Tonino Bello, dove più facilmente può insidiarsi il tentatore, troverebbero modi più adeguati e creativi per arrivare agli altri, anche attraverso i gruppi ecclesiali o i membri più sensibili delle loro comunità, senza tuttavia delegare totalmente un così alto “ministero della prossimità”, come quello di farsi vicini attraverso una chiamata. Il modello a cui guardare è sempre la comunità cristiana delle origini che – con l’entusiasmo del primo amore – cercava di trovare soluzioni efficaci ad ogni problema. Qualche giorno fa, Avvenire, pur mettendo in luce alcuni limiti, ricordava che questo 2021 potrebbe essere l’Anno della Voce, con app e social che sembrano fare a gara nel favorire il suono anziché l’immagine. Perché non pensare allora di declinarlo, come membri delle comunità ecclesiali, anche nell’azione di telefonare? Non c’è “Voce” oggi che sembra più importante di quella di un buon samaritano che ci chieda “come stai?”.
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