Stamattina due amici – i quali neppure si conoscono tra loro, a quanto ne so – mi hanno contattato, separatamente, per parlarmi di questioni che avevano a che fare con i miracoli, col miracoloso in senso lato, con il vincolo che essi pongono (o non pongono) al credente e con la relazione che c’è tra i miracoli e la fede cristiana: sono pure arrivato a chiedermi se mi fosse sfuggito qualche evento a cui i miei interlocutori si sarebbero potuti riferire entrambi… Riproporre l’integrale delle conversazioni richiederebbe quasi un libro, anzi due – come quelli che gli amici in questione stanno scrivendo (uno a ciascuno) – ma parlare con loro mi ha stimolato a rimettere in ordine alcuni pensieri che da tempo mi ronzano in testa.
Coordinate generali
Ribadiamo allora sinteticamente alcune premesse fondamentali:
- si intende per “miracolo”, in senso proprio e stretto, esclusivamente una particolare sospensione soprannaturale (per agente e per difetto di plausibile spiegazione alternativa) delle leggi di natura;
- il miracolo, in sé e per sé, non esige un assenso di fede, ma anche per questo è opportuno distinguere
- tra la credenza nei miracoli (che in quanto tale, e in generale, fa parte del depositum fidei1Soprattutto laddove si stia parlando dei miracoli attestati dalla/nella Rivelazione pubblica.)
- e la fede per i miracoli (ossia l’atto della volontà con cui una persona crede in Dio sulla base di un segno soprannaturale che il suo intelletto ne abbia riconosciuto);
- i miracoli fanno parte del bagaglio religioso universale fin dalle sue attestazioni più ancestrali, ma
- pur essendoci stata un’innegabile “reazione apologetica” anti-illuministica, in età moderna, per la quale si contrastavano le erronee tesi deiste escludenti la possibilità dell’intervento soprannaturale nel mondo facendo invece dei singoli miracoli, in quanto tali, “prove e sostegni della fede”;
- e pur avendo il cristianesimo comportato, rispetto alle religioni naturali, un superamento del rapporto di “do ut des” con la divinità,
- non è conforme alla dottrina cattolica ritenere i miracoli tout court “archiviati”, quasi esprimessero uno stadio primitivo e immaturo della relazione col divino.
Il dato teologico rilevante e insuperabile che emerge da tutto ciò è che – a differenza di quanto nella storia umana solo alcuni illuministi e alcuni modernisti hanno preteso – malgrado la sua infinita trascendenza, la divinità ha sempre facoltà di intervenire come vuole nella creazione.
Due articoli (d’annata) di Giuseppe Zito s.J.
Ciò detto, sono tornato con la memoria a due ormai quasi ventennali articoli che il gesuita Giuseppe Zito pubblicò su La Civiltà Cattolica nel 2002 e nel 2006: il primo era dedicato allo “Spider-Man” di Sam Raimi e il secondo a “Il ritorno di Superman”. Nel piú datato si osservava:
Spider-Man non è certo l’unico film hollywoodiano a fare un uso massiccio della simbologia e della mitologia delle grandi religioni: si pensi, ad esempio, a The Matrix. La lotta tra Bene e Male, personificata nello scontro tra l’eroe e il malfattore, è un tema centrale nella cultura di matrice cristiana. Goblin, per esempio, assume tratti decisamente satanici, sottolineati fin troppo platealmente nella scena in cui spaventa quasi a morte la vecchia zia di Peter, che stava recitando il Padre Nostro, interrotta proprio mentre dice: «[…] ma liberaci dal male». Per antitesi, Spider-Man assume le caratteristiche del Salvatore, a cui sono dati i poteri di riscattare il mondo dalla minaccia del Male. Entrambi i personaggi, una volta ricevuti i superpoteri, vivono una lotta interiore di natura morale, che però li condurrà in due direzioni opposte: l’eroe a usare i propri poteri per l’utilità comune, il malfattore per acquistare sempre più potere e dominare sugli altri.
Giuseppe Zito, Spider-Man di Sam Raimi, in La Civiltà Cattolica 3650, 164-166, 166
Zito avrebbe continuato a studiare la produzione fumettistica e cinematografica atlantica sulla scia di questa (peraltro non esclusivamente sua) intuizione, e cosí a proposito di Superman avrebbe potuto osservare piú diffusamente:
Il personaggio di Superman nasce nel 1934 dalla mente di due giovani artisti statunitensi di origine ebraica, Jerry Siegel e Joe Shuster, compagni di classe in un liceo di Cleveland, nel cuore del Midwest americano. Gli anni della nascita di Superman sono anche quelli della grande depressione, caratterizzati da fame e disagio e, quindi, anche dal disperato bisogno di eroi, di miti, di salvatori. […]
Superman, come i suoi creatori di origine ebraica, si trova a crescere in una terra straniera, figlio di genitori provenienti da una patria ormai perduta. Come Mosè, il piccolo Superman viene salvato dalla distruzione che toccherà ai suoi simili grazie a una navicella, che lo condurrà tra le braccia di una nuova madre e di una nuova patria. Anche il suo vero nome, Kal-El, carico di giudaismo, è molto simile all’equivalente ebraico di “voce di Dio”. Così anche il nome del padre, Jor-El, che lo invia “come un dio fra gli uomini”, fa eco all’impronunciabile nome ebraico di Dio, oltre che a quello dei due creatori del supereroe. |
Da buon messia postmoderno, tuttavia, Superman non disdegna di attingere anche alla tradizione cristiana: come Gesù, infatti, egli muore e risorge, discende dal cielo, è in tutto e per tutto simile agli uomini ma ha poteri sovrumani, resta nel nascondimento di una piccola città fino all’età di trent’anni e soltanto allora inizia la propria “vita pubblica”. Ognuno può divertirsi a trovare parallelismi tra Superman e Gesù, ma ciò che qui ci interessa è mettere a confronto due modi profondamente diversi di “salvare il mondo”, per poi domandarci se in fondo, delusi dalla salvezza offerta da Cristo, non preferiremmo un salvatore più simile a Superman.
Id., Il ritorno di Superman, in La Civiltà Cattolica 3750, 506-510, 506-507
In questo secondo articolo la riflessione di Zito si è spinta decisamente piú a fondo, e mi riferisco in particolare a ciò che il gesuita scrive dopo aver riassunto personaggi e trama, nonché dopo aver introdotto il confronto fra Gesú e Superman:
Il modo di Cristo di vincere il male non è quello di sradicarlo, esiliarlo, metterlo in carcere come faremmo noi o come fa Superman, ma di prenderlo su di sé, di accoglierlo. Non con rassegnazione o passività, ma per amore dei suoi stessi carnefici e con una infinita fiducia in colui che, pur essendo la fonte di ogni bene, permette al male di esistere: Dio. Neanche da risorto Gesù tenta di cancellare il male. Ai propri discepoli non lascia superpoteri o armi portentose, ma il dono più impalpabile: lo Spirito. Questo ci scandalizza. Gesù avrebbe dovuto rimanere, fare più miracoli, guarire tutti i malati, scacciare tutti i demoni; in definitiva, fare come Superman! Non è in fondo questo quello che ci aspettiamo da un Dio buono? Per questo di fronte allo scandalo del male ci domandiamo: come può esistere Dio?
Ivi, 509
Considerazioni ricapitolative sulle interazioni tra miracoli e fede
Parlando col primo dei due amici delle telefonate di stamane mi si schiarivano alcune idee in proposito, e in particolare queste tre:
- Prima dell’ascensione Gesú sa che la sua attività portentosa (i sinottici parlano volentieri di “miracoli”, mentre Giovanni sceglie un piú meditato “segni”) è legata al mistero della propria abissale coscienza, intesa come congiunzione dinamica di un’eterna volontà divina e di una volontà umana che continuamente cresce e liberamente si conforma alla divina:
- molti miracoli, infatti, nei Sinottici, sono caratterizzati dalla “commozione viscerale” di Gesú davanti a una sofferenza che gli si presenta innanzi (si pensi al corteo funebre del figlio della vedova di Nain);
- anche nel Quarto Vangelo, alla notizia della grave malattia di Lazzaro, Gesú procrastinò il proprio intervento esplicitamente perché, se fosse stato fisicamente presente, non avrebbe resistito a guarire l’amico risparmiandogli la morte, mentre lasciandolo morire avrebbe avuto l’occasione di offrire un segno piú grande, un segno che per molti sarebbe stato decisivo (e difatti quando poi arrivò sul posto «scoppiò [letteralmente] a piangere»).
- Cristo stesso avvertí i discepoli che l’ascensione segnerà una cesura sulla modalità in cui da lí in poi sarebbero avvenuti i miracoli: ciò per una questione missiologica, chiaramente, ma pure perché la divinizzazione definitiva dell’umanità di Cristo avrebbe reso veramente e pienamente “cosmica” (s’intenda cum grano salis) la persona fino ad allora storica del Nazareno.
- Effettivamente l’esperienza che il popolo cristiano ancora oggi ha dei miracoli è questa:
- avvengono, sí, e le testimonianze sono tante e tali che – con buona pace di David Hume – non c’è motivo ragionevole di dubitarne;
- per numero e per entità sono paragonabili a quelli compiuti da Gesú durante la sua vita terrena (se non addirittura «piú grandi di quelli», secondo le sue parole);
- tuttavia – anche se si è acquisito il principio per cui “ogni miracolo è un segno per tutta l’umanità” – essi non avvengono a tutti, né sempre, né ai “piú meritevoli” (in qualunque modo lo si voglia intendere).
Tutto ciò pone un problema che è teologico solo in seconda battuta, in quanto anzitutto si concreta in uno scandalo relativo alla fede (paragonabile a quello di chi, vicino alla tomba di Lazzaro, osservava lucidamente: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco nato non poteva anche far sí che questo suo amico non morisse?»).
Il problema, insomma, non è discettare “se Dio esista” o discutere di altri teoremi celesti: Dio c’è e pare che abbia anche una forte relazione con questo Gesú; ma perché i miracoli che questo Gesú mostra di poter fare non li fa per tutti? Cos’è, deve “ricaricare le batterie”? Ha un budget limitato? Formulo qui le domande in tono provocatorio, ma Zito aveva già centrato il punto parlando dello Spirito: Cristo che ascende non lo fa perché ormai ci ha risolto tutti i problemi, bensí perché avendoci donato lo Spirito ed essendo ormai “alla destra del Padre” Egli può vivere realmente in ogni uomo che creda in Lui, oltre che nella propria autonoma sussistenza. Quel che gli preme non è intervenire a ripianare ogni ingiustizia, a riparare ogni torto, a sanare ogni malattia, ma trasformare misticamente tutti gli uomini in curatori, in operatori di pace e di giustizia; soprattutto (a fondamento del loro “fare”) accendere nelle loro viscere la “commozione viscerale” che ha operato l’olocausto della sua umanità divinizzata. Insomma, cristificare tutto il mondo.
La costruzione psicologica delle agiografie antiche e quella dei moderni supereroi
Studiando patristica avevo notato che l’agiografia cristiana dei primi secoli si era contaminata non poco con il genere ellenistico del romanzo eroico2Nel febbraio 2016 c’era stata anche una conferenza internazionale dedicata, nell’università belga di Ghent: Holy Hero(in)es. Literary Constructions of Heroism in Late Antique and Early Medieval Hagiography.: cantando l’eroismo delle virtú cristiane, gli antichi agiografi avevano essenzialmente operato una “Umwertung aller Werte”, e dunque i santi cristiani erano sí ricchi, belli, buoni e valorosi come quelli pagani, ma – attuando una kènosi cristologica – reagivano alle traversie dell’esistenza apparendo o passando per poveri, brutti, cattivi e meschini (senza mai esserlo veramente!).
Quel che è accaduto con la nascita dei supereroi – i quali a quanto mi par di capire (ma potrei essere smentito) sono un’invenzione letteraria con meno di un secolo di vita alle spalle – è la creazione di personaggi che non solo invertono il processo di acculturazione stabilito dai santi cristiani rispetto agli eroi antichi – dunque una secolarizzazione in luogo di una sacralizzazione – ma comportano modifiche sostanziali alla personalità psicologica del Salvatore.
Cristo viene da Unigenito, sí, ma diventa Primogenito; viene da Vergine e diventa Sposo; viene da Agnello e diventa Pastore… e le immagini biblico-teologiche potrebbero moltiplicarsi a iosa: quel che è chiaro è che Cristo viene per dare, ma la volontà del Padre punta a una gloria che è al contempo la gioia degli uomini e quella della divinità. Cristo è il mercante di perle della sua stessa parabola: fa uno sforzo economico enorme, ma lo fa con gioia perché “ci guadagna” – la gioia della “pecorella smarrita ritrovata”, certo, ma se fa troppo oleografico pensate anche alla “dracma perduta e ritrovata”… In Cristo, Dio ci guadagna.
Che cosa guadagnano invece Superman, Spiderman e (a mio avviso il piú disgraziato di tutti) Batman? Dove vanno a parare le loro solitudini? Che senso ha il loro celarsi in un’identità segreta se non vi riparano una comunità amata (non dico una Chiesa, ma perlomeno una famiglia!)? Quale progettualità c’è nel loro continuo intervenire in ogni disagio, dal cattivissimo che minaccia l’universo al gattino rimasto appeso alla grondaia?
La contrapposizione tra il supereroe moderno e il moderno antieroe (diciamo il Don Giovanni di Mozart e Kierkegaard) è non dico fittizia, ma relativa ad alcune (pur importanti) variabili, non alla funzione di fondo. Disponendoli sui quattro stadî del modello con cui David McClelland descriveva la progressione della coscienza rispetto al “motivo di potere” – ossia lo sviluppo della ragione per cui una persona persegue degli obiettivi che lo gratificano – sia il diabolico Don Giovanni sia il sospirato Superman si fermano al terzo stadio, senza mai giungere al quarto (quello della compiutezza). Cosí Robert Feldman li sintetizzava3Non serve stare qui a riportare i primi due.:
III stadio: a esso corrisponde la fase fallica dell’autoaffermazione. Il soggetto esperisce la forza attraverso l’influenza che ha sugli altri. È potente perché dirige, costringe, turba, impressiona gli altri. Questo sentimento di potere è tanto più forte quanto più l’effetto di una determinata azione su altri prescinde dalla loro volontà ma viene attribuita al soggetto. L’archetipo del maschio in questo stadio è il Don Giovanni, che mente, illude e compie qualsiasi manipolazione pur di conquistare le donne. Le donne per lui hanno valore solo in quanto affermazioni della grandezza del conquistatore che rimane comunque solo. La vita è un gioco a somma zero: ciò che io guadagno tu lo perdi. Viene letta in modo analogo come appartenente a questo stadio, la spinta ad aiutare e prestare soccorso, motivata dal riconoscimento della superiorità rispetto a chi ha bisogno di aiuto e dal bisogno di ricevere la sua gratitudine. In questo stadio si ambisce al riconoscimento sociale della propria azione, che non deve rimanere nascosta per consentire di rispondere al bisogno di potere. Anche in questo caso l’individuo persegue il proprio potere, il gioco però non è a somma zero a scapito degli altri, bensì a loro vantaggio.
IV stadio: in esso né la fonte né l’oggetto hanno origine nel soggetto. La fonte è posta in un principio superiore (un’idea, Dio) e il soggetto si esperisce unicamente come strumento al servizio di qualcosa di superiore. Anche l’effetto si manifesta negli altri: sono gli individui e non il soggetto che devono diventare più forti. Rispetto alla fase di sviluppo, al quarto stadio viene associata la fase genitale caratterizzata dalla reciprocità, dal legame e dalla fedeltà.
Robert S. Feldman, Guido Amoretti e Maria Rita Ciceri, Psicologia generale, Milano 2017, 317
Perché non abbiamo tanto bisogno di miracoli quanto di un vero Redentore
Ecco perché, paradossalmente ma coerentemente, il Messia cristiano è piú fecondo di ogni supereroe malgrado questi siano stati creati con l’ambizione di dar forma a un Cristo “piú virile”: l’ossessione masturbatoria sul miracolo può sorreggere appena una narrazione di salvezze episodiche (e questo va bene per il cinema ma non per l’umanità), però comporta fatalmente la costruzione di “cristi onanistici”.
Il che mi riconcilia, dopo anni, con una conclusione di Zito che forse non avevo ancora ben compreso:
Circa a metà del film, Lex Luthor, il super-criminale per eccellenza, spiega ala propria partner di essere simile a Prometeo. Nei | tanti miti che lo riguardano, infatti, il personaggio della mitologia greca ruba agli dèi l’arte del fuoco per donarla agli uomini, così come Lex Luthor ruba a Superman e alla sua civiltà una scienza avanzatissima, capace di cambiare il mondo. Prometeo è colui che sfida la divinità, che vuole trasformare l’uomo in dio, un po’ come nel libro della Genesi, in cui Adamo ed Eva mangiano del frutto proibito per diventare come Dio. Allo stesso modo Lex Luthor vuole essere come Superman, che egli vede come un dio capriccioso ed egoista, vanitoso e con una fastidiosa mania di protagonismo. In realtà il sogno di Luthor è anche il sogno di ogni uomo: avere poteri sovrumani, essere come un dio. Per Superman, invece, questo sogno è realtà, e [si] può dire che, seppur in modo diverso da Luthor, anche Superman è immagine di Prometeo: un dio che fa dono agli uomini di una scintilla di divinità.
Lex Luthor e Superman sono dunque le due facce della stessa medaglia, i due volti dello stesso Prometeo, le due opposte personificazioni del medesimo desiderio, tipico dell’uomo, di essere come Dio. Cristo, al contrario, è l’anti-Prometeo, è il Dio che si fa uomo, è il Superman che rinuncia ai propri poteri per condividere la condizione umana e poter veramente rendere l’uomo come Dio.
Il confronto con il limite, con il dolore e con la morte è il luogo dove si decide chi è veramente l’uomo. All’esperienza di non poter disporre della propria vita l’uomo può rispondere ribellandosi o affidandosi, in modo simile a quanto avviene per l’esperienza dell’amore, che l’uomo può tentare di gestire in una logica di potere o di vita con affidamento. In un mondo incrinato dal peccato, la pienezza della vita e dell’amore richiede di passare attraverso la croce. Il rifiuto del limite, il tentativo di fuggirlo a tutti i costi, di estirparlo dalla nostra esistenza, è una rivendicazione violenta di divinità, il rifiuto della nostra umanità.
Giuseppe Zito, Il ritorno di Superman, 509-510
Tornando infine al miracolo e al suo rapporto con la fede, la domanda “perché Cristo ha guarito suo padre e non mia zia?!” è comprensibile ma non pienamente condivisibile, non se abbiamo cominciato ad accogliere e a comprendere l’Evangelo di Cristo. Un padre, una zia (o, piú dolorosamente, un figlio, una figlia…) sono comunque creature mortali destinate alla caducità: il miracolo testimonia – chiunque ne benefici accidentalmente – che tutti siamo nelle mani di un Dio provvidente, buono e onnipotente.
Nada te turbe, nada te espante
Teresa de Jesús
Quien a Dios tiene, nada le falta
Todo se pasa, Dios no se muda
La paciencia todo lo alcanza
Solo Dios basta.
Note
↑1 | Soprattutto laddove si stia parlando dei miracoli attestati dalla/nella Rivelazione pubblica. |
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↑2 | Nel febbraio 2016 c’era stata anche una conferenza internazionale dedicata, nell’università belga di Ghent: Holy Hero(in)es. Literary Constructions of Heroism in Late Antique and Early Medieval Hagiography. |
↑3 | Non serve stare qui a riportare i primi due. |
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