“Jazzare”: vivere la vita a ritmo di jazz, improvvisare, godersi il presente. Il neologismo è tratto dal nuovo film di animazione della Disney-Pixar “Soul”, uscito il 25 dicembre 2020 sulla piattaforma streaming di Disney +, scritto e diretto da Pete Docter, lo stesso regista degli indiscutibili successi di “Up” e “Inside Out”. “Soul” è davvero un gran bel film, accolto bene dalla critica e con lo sfidante scopo di offrire una riflessione sul senso dell’esistenza che ben si presta al periodo attuale, sia per l’emergenza sanitaria che ha portato molti a interrogarsi su dimensioni più profonde della propria vita, sia perchè all’inizio di un nuovo anno si è spesso impegnati a fare bilanci e stilare una lista di buoni propositi e obiettivi da raggiungere.
Quegli stessi obiettivi che la cultura moderna del “se-vuoi-puoi” ha forse sovradimensionato o assolutizzato, portando il povero uomo medio ad accrescere i propri problemi di ansia da prestazione, dovendo essere sempre all’altezza di affermare se stesso e dimostrare al mondo di essere tra coloro che “ce l’hanno fatta”, che hanno realizzato i loro sogni, con tutti i nessi e connessi: da una parte un incoraggiamento buono e giusto a porsi delle mete e perseverare nel raggiungerle, dall’altro la pericolosa illusione che tutto sia possibile, con la più probabile delusione che ne conseguirà. Il film tocca proprio la questione del rischio di questo meccanismo altalenante che sta condizionando la capacità umana di percepire e interpretare gli eventi, incastrandoli nelle due categorie opposte del “tutto o niente”, “successo o fallimento”, “vincente o perdente”, dimenticando che la meta è il viaggio (citazione che in rete sembra sia attribuita a Paulo Coelho, ma anche un po’ ad Albert Einstein, a Thomas Eliot, a Marcel Proust ecc. ecc…).
Il protagonista del film, Joe Gardner (il cui doppiaggio è ottimamente affidato a Neri Marcorè) è un pianista jazz che non è riuscito a sfondare nel suo campo e che si ritrova a insegnare musica a dei demotivati ragazzi delle medie, salvo poi prendersi qualche soddisfazione quando tra di loro emergono rare eccezioni che trovano nella musica la stessa “scintilla” che ha appassionato anche lui, quella scintilla capace di trasportare le anime nella cosiddetta “bolla”, in cui spazio e tempo sembrano non esistere più e la mente si ritrova a immergersi nel piacere di quello che sta facendo. Fenomeno che in psicologia è chiamato “flow experience”, la totale immersione in un compito che produce in chi la vive uno stato soggettivo di benessere, gratificazione ed entusiasmo.
La confusione si crea quando Joe ritiene che vivere questa bolla sia lo scopo della sua vita e la consapevolezza che ciò non rappresenti il suo lavoro lo fa sentire frustrato e “non arrivato”. Aveva scambiato il mezzo con il fine. Sarà necessaria una caduta (è sempre necessaria una caduta) per fargli cambiare prospettiva, un incidente che lo porterà nel mondo dell’Aldilà, o meglio, nell’Ante Mondo. Qui Joe incontrerà 22 (splendidamente doppiata da Paola Cortellesi), una giovane anima che non può ancora incarnarsi, perchè in attesa di scoprire la sua scintilla e a cui Joe dovrà fare da trainer, sperando che questo lo aiuti a riprendersi il suo corpo e la sua vita. L’impresa non sarà facile, perchè 22 è terrorizzata dall’idea di avere una sua vita sulla terra, angosciata dall’idea di non esserne all’altezza e nelle sue reazioni ribelli risuonano quelle di tanti adolescenti che dietro la loro rabbia urlano soltanto un legittimo bisogno di essere accolti e riconosciuti, senza l’aspettativa di una prestazione troppo alta rispetto alle loro possibilità o ai loro reali talenti. Giovani che senza lo sguardo di chi crede veramente in loro fanno fatica a costruire una propria identità, con il rischio di restare solo un numero in mezzo agli altri.
Importante è anche l’incontro con Spartivento, capo dei Mistici senza frontiere, che con una saggia e illuminante osservazione fa comprendere a Joe che le anime perdute non sono solo quelle che diventano schiave di ciò che non desiderano, ma anche quelle che fanno della gioia della loro bolla un’ossessione.
E a questo punto la domanda diventa lecita: quando la bolla diventa un modo per vivere in pienezza i propri talenti e quando invece è un modo per fuggire dalla realtà o da un’immagine realistica e non narcisistica di se stessi? Del resto, anche il barbiere Dez (che francamente è uno dei personaggi più realistici ed equilibrati che ho trovato nel film, pertanto anche il più realizzato, malgrado le apparenze) fa notare a Joe che è stato bello per una volta poter conversare con lui su argomenti che non riguardano il jazz.
Il jazz: anche lui è un personaggio del fim. Cosa ci dice il jazz sull’arte di vivere la vita? Forse che possiamo imparare qualcosa dalle sue caratteristiche di improvvisazione, poliritmia, intensità, importanza dell’interpretazione e dell’espressività: tutto questo ci parla, infatti, di una modalità di fare musica, e quindi di vivere la vita, che non resta circoscritta allo schema del predefinito, ma che ha la disponibilità a modificare questo schema e a seguire come l’acqua i percorsi imprevisti dell’esistenza con una certa flessibilità (competenza indispensabile di questi tempi, che sta già facendo concorrenza alla ormai nota resilienza). Jon Batiste, che ha curato la colonna sonora del film, lo ha capito molto bene e del resto non è uno alle prime armi, avendo collaborato in passato con grandi nomi, quali Stevie Wonder, Prince e Lenny Kravitz: riesce ad accompagnare i momenti salienti della storia, dall’illusione di essere nato per un unico scopo, alla caduta, all’epifania di un cambiamento, con musiche che evocano la varietà delle emozioni e degli eventi con la stessa creatività che il film sembra voler suggerire. Una creatività che si oppone alla pretesa di poter controllare tutto (nella sua imprevedibilità, infatti, il jazz esce dalle logiche del controllo).
Come ricollegare tutto questo al problema delle aspettative e degli obiettivi prefissati da cui eravamo partiti? Joe, come in una bella metafora che viene raccontata nel film, è come un piccolo pesce che va in cerca dell’oceano, non capendo che l’acqua in cui nuota è già l’oceano. Cerca e insegue qualcosa che sente che gli cambierà la vita una volta raggiunto, che gli risolverà tutti i problemi, un posto, un ruolo, in cui potrà essere veramente felice. Un qualcosa che probabilmente ha idealizzato, mitizzato, attribuendo ad esso il potere di definire la sua vita e la sua felicità. In altre parole: un idolo. E qui risuonano chiare le parole del Deuteronomio: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Dt 5,6-10). E chi ha familiarità con una lettura più profonda delle dieci parole (note ai più come “dieci comandamenti”) sa che gli altri dèi a cui sottomettersi possono prendere svariate forme: potere, soldi, successo, fama, numero dei like sui social, il grande amore della vita, il lavoro dei sogni, finanche i figli (purché rispondenti alle aspettative) e la lista andrebbe avanti all’infinito. Tutto ciò che fa dire “solo quando lo raggiungerò, sarò veramente felice”. Per poi capire che non è così, che la realtà è diversa da come la immaginavamo, se ne rende conto Joe, così come se ne era reso conto lo stesso regista, Pete Docter, il quale in un’intervista all’Huffington Post racconta che l’idea del film l’ha avuta proprio dopo il grande successo di “Inside Out” che l’ha portato a fermarsi e a riflettere sul fatto che la vita potesse andare oltre quell’obiettivo raggiunto e che andasse cercata anche nelle piccole cose e nelle esperienze di ogni giorno. Un significato molto bello e apprezzabile, ma mi chiedo se sia sufficiente per rispondere ai grandi interrogativi esistenziali che il film apre negli spettatori. La filosofia che soggiace a “Soul” richiama l’idea platonica di corpo e anima, ma tiene fuori un terzo elemento, lo spirito:
Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.
1 Ts 5,23
L’anima che vaga alla ricerca di sé stessa e del suo scopo in Soul è fondamentalmente sola e per questo è più facilmente ingannabile dai suoi idoli.
Se già è difficile camminare quando sembra di avere una vaga idea della propria meta, figuriamoci come lo diventa quando ci si rende conto che spesso, di fronte ai colpi di scena della vita, non si può fare altro che “jazzare”. Questo è il cuore di ciò che manca alla narrazione del film, ma spesso anche a quella della cultura contemporanea: la possibilità di cogliere il dono del presente nella consapevolezza che uno scopo c’è, che a volte può prendere delle forme diverse dall’immaginario, ma che in ogni caso è solo nella relazione con Qualcun altro che possiamo viverlo in pienezza, riconoscendo il nostro corpo tempio dello Spirito Santo. Don Luigi Maria Epicoco mi perdonerà se lo prendo spesso come riferimento delle mie riflessioni (oltre che dei miei stati whatsapp a cui miei contatti sono ormai abituati), ma una delle sue catechesi disponibili su youtube chiarisce molto bene cosa è importante distinguere per riprendere “la bussola della propria vita”: una cosa è il desiderio nella sua sostanza, altro è il desiderio nel suo immaginario. Quest’ultimo deve essere deluso e il Signore, da Padre buono che ci conosce e ci ama, permette che questo accada per poter realizzare il desiderio vero e più profondo che abbiamo nel cuore. I desideri che abbiamo vanno ascoltati, sottoposti a discernimento e quelli che vengono dallo Spirito vanno certamente perseguiti. Ciò che fa la differenza è la libertà con cui da figli di Dio possiamo vivere il manifestarsi di questi desideri secondo i ritmi della vita, quelli veloci e quelli lenti, con le intensità alte e con quelle basse, così come anche con delle pause, ma vivendoli sempre in relazione al Signore e con una pace che sappiamo non venire da noi, ma dallo Spirito.
E allora buon anno a tutti, viviamo un tempo di grandi incertezze e repentini cambi di programma, dove probabilmente dovremo continuare ancora a “jazzare” e dove le melodie non sono già predefinite, perché vanno costruite. Ma non suoniamo da soli.
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