Siamo ormai alle porte del Santo Natale e i colori accesi dell’autunno cedono, a poco a poco, il passo a quelli più rigidi dell’inverno. È un tempo di profonda riflessione, ma anche occasione di rinascita nella speranza cristiana. Siamo chiamati a meditare e a un silenzio orante in vigile ascolto della Parola che si è fatta carne per la nostra salute
La bruma intravista nei primi giorni di novembre mi ha riportato a ricordi di autunni passati quando con l’arrivo dell’Avvento ci voleva il paltò e non un vestiario ancora sbarazzino. E la memoria, per singolari assonanze, si è raccolta su pagine sfogliate da fanciullo, dove lo stupore si leggeva non solo per il racconto ben rilegato in volume, ma pure sul piccolo viso di chi sapeva ancora meravigliarsi con seria spensieratezza. Riprendo tra le mani il vecchio e consunto libro, smuovendo veloci i fogli ingialliti dal tempo. Mi soffermo su un capitolo in particolare, avvinto di nuovo da quell’incalzare di vocaboli allineati con cura. Se il Manzoni andò nell’Arno a sciacquare i panni e noi possiamo recarci da lui per fare lo stesso, non ci è proibito sostare sull’immortale fiaba del Collodi. E nel punto dove mi trovo, mi figuro un infarinato Pinocchio, che, un attimo prima di essere fritto in un tegame, viene salvato in extremis. Libero, anzi liberato, può correre a casa dalla sua Fata pronto a invocar misericordia per le sue mascalzonate. Ma gli eventi non vanno come s’aspetta; al contrario, come si suol dire, passò, quasi letteralmente, dalla padella alla brace. La notte era buia e faceva tempaccio e, per di più, l’acqua veniva giù a catinelle e il burattino, reo delle sue birichinate, esitava e tentennava nel bussare alla porta. In poche parole, il clima – esteriore e interiore – non era per nulla favorevole. La situazione non migliora: anziché rivedere la dama dai capelli turchini, si aprì una finestra dell’ultimo piano… e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca. La brava bestiola fa le veci della padrona di casa con spirito pronto, ma senza fretta: ci vogliono nove ore per scendere fino sull’uscio di strada e soltanto dopo altre tre ore e mezzo porta qualcosa da mettere sotto i denti del burattino, il quale si sentì consolarsi tutto. Tuttavia, le cibarie sono oggetti incommestibili e, per il gran dolore o per la gran languidezza di stomaco, Pinocchio stramazza svenuto.
Mi fermo nella lettura e medito sullo stato attuale. C’è un tempaccio anche ai nostri giorni a causa di quel virus taldeitali in libero sfogo per cui non sembra intravvedersi la luce, la fine della sventura epidemica. Riemerge in me la domanda di discepoli curiosi davanti alla prospettiva della distruzione del tempio e dell’inizio dei dolori: Di’ a noi, quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi? Gesù è lapidario nell’articolata risposta, sintetizzabile in un laconico badate a voi stessi! La vita non può essere vissuta come un possesso e un controllo su ciò che ci circonda, ma come un dono attinto in una relazione d’amore, quella col Padre. E come ogni rapporto ci deve essere fiducia, generatrice di fedeltà, e pazienza. Noi Pinocchi moderni vogliamo subito quel che ci passa per la testa, rigettiamo l’attesa. E, invece, dobbiamo macerare nell’impazienza, fintantoché – come si apprende in un geniale commento a Le Avventure di Pinocchio –
le illusioni si disperdono e le intenzioni si purificano. Senza questa prova, ogni ritorno rischia di essere solo una “esperienza” superficiale ed effimera.
Sicché, la Fata con il suo atteggiamento educa il burattino: non è indubbio il perdono, ma è necessario un cammino di redenzione. Ivi trovano dimora la speranza e la crescita spirituale: quando sentirete di guerre e di rumori di guerre, non allarmatevi. “Non inquietarti, non disperarti”, mi par di sentire nel mio intimo la voce di Pinocchio oramai divenuto un ragazzino perbene, “ci sono passato anch’io. Abbi pazienza e fiducia. Pensa a quello che tu puoi testimoniare in questo frangente; sii fedele”. E si palesa la vera questione: a chi dar credito?
Riapro il libro foriero di meravigliose notazioni e l’attenzione cade su un altro capitolo tanto attuale da essere disarmante. Non hanno tutte le risposte gli uomini cosiddetti di “scienza”, disciplina assurta al ruolo di religione universale a cui obbedire senza batter ciglio, da idolatrare e forsanche adorare? Siamo persuasi, se ci si affaccia al tubo catodico con morigerata distrazione, che non sia proprio così e non può essere altrimenti: la vera scienza cerca di spiegare “il come” non “il perché” avvengano le cose. Non basta sapere il funzionamento della natura per guarire i mali che affliggono l’uomo, è stato detto con verità. È quanto il Lorenzini descrive nella disputa tra i medici più famosi del vicinato chiamati dalla Fata al capezzale di Pinocchio appena salvato dall’impiccagione per capire se sia morto o vivo. Se il primo specialista sentenzia: A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è semprevivo!; l’esimio collega, dal canto suo, replica: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è mortodavvero. Parole senza dubbio ammirevoli nella loro concreta fattualità, seppur non dimostrata. È, però, il terzo parere, quello del Grillo parlante, simbolo della coscienza, a essere risolutivo, perché aiuta Pinocchio a riconoscere le sue malefatte. Si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi: la salvezza arriva sovente accompagnata da lacrime amare (come non rimembrare la conversione dell’Innominato?), ove la coscienza si prende carico dei peccati commessi. Seguire i dettami della propria coscienza non è, infatti, agire assecondando il gusto o l’idea del momento, bensì mettere in pratica nel proprio operato la volontà divina, bene massimo per ogni creatura.
Rimugino e pondero; la fase in cui siamo è difficile, eppure Dio ci parla mediante la storia, tramite i fatti che accadono. Se per irenismo lessicale nell’orbe cattolico sono sparite parole dal sapore biblico ed ecclesiale, come “castigo”, “prova” o “merito”, sovente lo sono per una pigrizia teologica che non si disturba più a chiarire il retto significato dei termini in questione. È un castigo quello con cui Dio sta affliggendo il mondo? Sic et non, rispondo abelardianamente, mentre un raggio di sole penetrato dalla finestra mi distoglie dai ragionamenti. Di quanta luce abbiamo urgenza, convengo con il mio “io” interiore, per poi riprendere il filo dei pensieri. No, di certo, mi dico, se si crede che questa pandemia sia usata da Dio per punirci (nel caso, potrebbe trovare, de facto, metodi ancora più efficaci). Sì, invece, se si intuisce che il male si è propagato per una catastrofe iniziale, assente nel progetto divino. Se il peccato è stato riparato in melius ne rimangono gli influssi mortiferi, perché il Signore vuole accaparrare il cuore d’ogni uomo con la potenza del Suo amore, senza prevaricare la libertà delle sue creature. Epidemie, terremoti, carestie e quant’altro sono causati da un nuovo ordine scaturito dal peccato (originale). Ecco il castigo: è la pena che l’umanità si è autoinflitta, una conseguenza. La realtà è attraversata dal male, permesso soltanto da un Padre che vuole bene a tal punto i suoi figli da concedergli di sbagliare. Nondimeno, li aspetta, pronto a rialzarli dalle inevitabili cadute. È il Padre misericordioso che attende il figliol prodigo e che sopporta le indebite intemperanze del figlio maggiore.
Riprendo in mano il Vangelo. Scorro quelle sacre sillabe e intuisco come ogni cosa esistente (anche malefica) è ricondotta dalla potenza divina al bene, per un bene. Apro il cuore alla speranza, cedendo a un sospiro di sollievo: nulla è più forte dell’amore di Dio (neanche la natura) e, pertanto, qualsiasi particella del reale trova il suo senso nella fede, nella fiducia di chi prega: “Credo in te, Signore, nonostante tutto!”.
Quale il castigo? Quello di chi rifiuta un legame con il Cristo, condannandosi al vuoto della solitudine. La risurrezione è, invece, relazione con il Padre, il quale non esita a correggere i suoi figli in vista di un dono più grande: È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?
L’Avvento è il periodo dell’attesa, della preparazione, della conversione e, oggi più che mai, di purificazione. Sorrido. Le risposte il buon Dio me le ha date tutte, ma la mia dura cervice non mi consente di coglierle nella sua portata. Che fare? Mi fido. Ossia non mi lamento, poso l’attenzione sulle grazie divine disseminate nel mio quotidiano, non chiacchiero a sproposito come i due professoroni nel racconto collodiano (che, d’altronde, pur parlanti, rimangono bestie). Dinanzi al burattino che si dispera, facendo una sorta di mea culpa, il dottor Corvo non ha dubbi: Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione; eppure il compare Civetta non ne è convinto: Quando il morto piange, è segno che gli dispiace di morire. Invoco: “Signore liberaci dai troppi discorsi inutili!”.
Sì, alla fin fine mi convinco, è il tempo propizio per un silenzio orante, per fare di noi il luogo della presenza dello Spirito Santo e annunciare a coloro che incontriamo la buona novella: Dio nasce per noi! Dio si fa uomo per salvarci! Niente e nessuno può impedirlo. Cambio posizione sulla poltrona e mi alzo con fare quasi infastidito. L’ultimo interrogativo è un pungolo, ma non posso evitare la domanda: Sono pronto a rinunciare alle mie piccole idee per assimilarmi al sorprendente pensiero di Cristo? Qui, non altrove, ne sono conscio, si gioca la vita (eterna).
Di’ cosa ne pensi