La fondazione benedettina di Ilukhena, intrapresa tra il 2010 e il 2011 dall’Abbazia Benedettina di Farfa, non nacque come un’iniziativa spontanea della comunità monastica italiana. Furono le suore di Maria Immacolata – una congregazione di origine siolonese con alcune presenze in Italia – ad invitare il P. Priore di Farfa, Don Eugenio Gargiulo, a fondare un monastero benedettino in Sri Lanka.
Umanamente parlando l’impresa sembrava più temeraria che audace, dato lo scarso numero di monaci della comunità farfense e la generale situazione del monachesimo benedettino in Italia. Inoltre in quel momento era in atto la fusione della Congregazione Benedettina Cassinese con la Congregazione Sublacense – fusione che avrebbe dato luogo all’attuale Congregazione Sublacense-Cassinese – e ciò creava una situazione giuridica piuttosto instabile e incerta. Nonostante questa situazione molto problematica, il P. Priore, dopo una visita sul luogo per conoscere i giovani interessati alla vita monastica e la situazione religiosa generale del paese, propose alla comunità di aprire una casa dipendente in Sri Lanka, e la comunità accettò la proposta.
Il P. Priore, infatti, d’accordo con la comunità, vedeva nell’invito delle suore di Maria Immacolata un segno del cielo. La comunità di Farfa non aveva, in Italia, fondate prospettive e sembrava opportuno che i non molti anni che restavano ai meno anziani del monastero per operare efficacemente fossero impiegati per prospettare, con l’aiuto di Dio, una realistico avvenire per l’Abbazia, altrimenti destinata alla chiusura.
Oltre a ciò la missione in Sri Lanka offriva la possibilità di una sorta di nuovo inizio per il monachesimo in crisi, quale si poteva tristemente sperimentare in Italia. Troppo spesso, infatti, nelle nostre comunità, il peso degli anni, la mancanza di forze nuove e la crisi post-conciliare – che in realtà era incominciata assai prima – aveva portato ad un certo annacquamento dell’osservanza della Regola di San Benedetto, favorito anche da abitudini e pregiudizi divenuti ormai tradizionali, come la sopravvalutazione delle prestazioni intellettuali e scolastiche e dei titoli accademici, a scapito dei lavori più umili e della cura per la casa e per la vita comune – in questo, del resto, il monachesimo non faceva che seguire la gerarchia di valori imperante in tutta la società occidentale.
Incominciare un’esperienza nuova, ripartire, per così dire, da zero, in un paese con la popolazione dai costumi ancora semplici e non guastata dagli sviluppi problematici della società occidentale sembrava l’occasione preziosa per ritornare ad un monachesimo fondato sugli insegnamenti essenziali della Regola benedettina, non infiacchiti dalla sovrapposizione di costumi sopravvenuti attraverso i secoli, poco conformi allo spirito del Patriarca cassinese.
Povertà, obbedienza, preghiera liturgica e privata, lavoro, amore per la Sacra Scrittura, umile servizio fraterno e cura condivisa della casa di Dio dovevano costituire i fondamenti su cui costruire la nuova comunità monastica.
Sarebbe ingenuo pensare che ciò fosse facile e che, incaricato personalmente, per il fatto di essere l’unico della comunità a conoscere la lingua inglese, fossi all’altezza di un tale compito! In realtà le difficoltà, i difetti, i fallimenti furono moltissimi, specialmente nei primi anni, tanto che in diversi momenti è stata messa in pericolo la stessa sopravvivenza della nuova comunità. Ma, di là dalle manchevolezze umane, per le quali ero continuamente richiamato dal Superiore in Italia, sembrava che in tutta l’iniziativa operasse segretamente la mano di Dio, per raggiungere, a poco a poco, i risultati che fin dall’inizio erano stati prospettati.
La Provvidenza sembra anche aver disposto che la nuova fondazione progredisse parallelamente ad un’intuizione che era sopravvenuta dopo circa quarant’anni di vita monastica. Tutto era nato dalla meditazione, protratta per decenni, di alcuni testi del Beato Cardinale Ildefonso Schuster (1880-1954), che i monaci e i novizi portati a guardare con rispetto al passato consideravano un po’ il loro Mentore – e per questo erano “snobbati” dai “progressisti”. Il Beato si era speso senza riserve perché il monachesimo benedettino superasse la crisi già in atto al suo tempo e riacquistasse il suo insostituibile ruolo nella Chiesa.
In realtà i testi dello Schuster, sebbene ricchi di insegnamenti preziosi, per ovvi motivi cronologici, non giungevano a gettare piena luce sui problemi che il monachesimo benedettino doveva affrontare in questi nostri inquieti tempi, e ciò offriva il destro ai suoi detrattori progressisti per squalificarlo. Ma la meditazione assidua dei suoi scritti, accompagnata da altre esperienze e letture, doveva infine condurre ad una illuminazione che sarebbe stata preziosa anche per la nostra fondazione in Sri Lanka.
Nel discorso tenuto a Montecassino per la festa di San Benedetto del 1942, il Beato Schuster compie forse il suo sforzo più audace nel tentativo di dare nuova ispirazione ai sui confratelli benedettini. Oltre a profetizzare l’apertura di missioni monastiche in Asia – e questa sua previsione doveva molto incoraggiarci per la nostra fondazione – egli diceva esplicitamente che, nella crisi del dopoguerra, la famiglia benedettina avrebbe dovuto comunicare «anche ai laici il pane spirituale di san Benedetto». Questa audace apertura trovava dei limiti nella prospettiva, ancora non adeguatamente maturata, del Beato Schuster, ma era un seme destinato a portare i suoi frutti.
Tutto il discorso dello Schuster si può leggere, con alcune note di commento, qui.
Ciò che il Beato Schuster non arriva a mettere a fuoco è che, affinché la Regola di San Benedetto, da lui giustamente indicata, insieme alla preghiera liturgica, come il vero «pane spirituale» per il popolo di Dio, sia data quale nutrimento ai laici, non basta ammettere qualche intellettuale nelle biblioteche dei monasteri per lo studio delle scienze sacre. Ci vuole ben altro! Occorre che gli insegnamenti di San Benedetto sulla sapiente conduzione cristiana della vita comune quotidiana nella casa di Dio siano applicati, oltre che nelle comunità monastiche, anche nelle famiglie cristiane, bisognose di un profondo risanamento. In questo ovviamente le comunità monastiche dovrebbero offrire non solo l’insegnamento dei dettati della Regola, ma anche e soprattutto l’esempio.
E qui appare il problema in tutta la sua drammaticità: se le famiglie cristiane hanno bisogno di una sostanziale revisione di vita, alla quale la Regola di San Benedetto può efficacemente contribuire, le stesse comunità monastiche attendono di essere risanate, riscoprendo la straordinaria saggezza del santo Patriarca nel plasmare la vita quotidiana condivisa da tutta la comunità nella luce della divina sapienza. Purtroppo questo aspetto, che costituisce la sostanza stessa della Regola, troppo spesso è stato trascurato nelle comunità religiose, probabilmente proprio per l’eccessiva considerazione delle prestazioni intellettuali e per la trascuratezza, da parte dei monaci sacerdoti, degli umili servizi quotidiani.
In realtà nessuno vive da solo e San Benedetto ha avuto il merito di scrivere non per i singoli, ma per plasmare secondo la dottrina apostolica la vita quotidiana delle comunità cristiane. È questo l’aspetto che i monaci per primi devono riscoprire e che devono poi comunicare – quale «pane spirituale di San Benedetto» – non genericamente «ai laici», bensì alle comunità che sono il fondamento della vita della società e della Chiesa, cioè alle famiglie.
Per rifondare “da zero” una comunità monastica con questa impostazione, la popolazione dello Sri Lanka offre molti vantaggi: il primo è che la gioventù generalmente non è guastata in radice dal culto della cultura esclusivamente scolastica – come non da oggi avviene in occidente. I ragazzi di qui sono abituati a prestarsi a tutti i lavori per la manutenzione di una casa, dalla cucina alle pulizie, al lavaggio, all’imbiancatura della pareti – se mai devono essere spesso esortati maggiormente allo studio. Tutto questo li predispone ad intraprendere la costruzione della «casa di Dio», in cui, grazie alla cura di ognuno per ogni cosa, dalla preghiera liturgica ai più umili servizi, come dice San Benedetto, «nessuno si turbi e si rattristi».
Con questo spirito ci impegnamo a formare i nostri giovani, mentre nello stesso tempo, fin dall’inizio cerchiamo di renderli responsabili della grande missione di diffondere, con l’insegnamento, ma ancor più con l’esempio, l’osservanza della Regola di San Benedetto nelle famiglie, per il risanamento anche della società silonese, che ormai rischia di percorrere la stessa rovinosa strada dell’occidente.
Per concludere questa breve presentazione, proponiamo la lettura del nostro progetto di “scuola monastica”, maturato attraverso tutti questi anni, con il quale vogliamo dare una solida formazione ai nostri giovani, e nello stesso tempo aprire le porte della casa di San Benedetto al fine di nutrire con il suo pane spirituale le famiglie dello Sri Lanka, come dell’Italia e di ogni altra realtà sociale.
Il programma della nostra scuola si può leggere qui.
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