Ma le comari di un paesino
Fabrizio De André, Bocca di rosa
non brillano certo in iniziativa:
le contromisure, fino a quel punto,
si limitavano all’invettiva.
L’amarezza della “questione Speranza”, in merito alla liberalizzazione della pillola abortiva, si è confettata per me dell’agrodolce glassa prontamente disposta dal mondo pro-life nostrano: alla tardiva, ininfluente e patetica serie di rimostranze è seguito in pochi giorni un (in)dignitoso silenzio. E andiamo avanti con la moralina degli imbelli che mentre sentono il bruciore dello schiaffo citano il “perché mi percuoti?” di Cristo al soldato e non appena si rendono conto di avere le mani legate (e già non sentono piú il bruciore) si rifanno al “porgi l’altra guancia” pure indicato dal Maestro.
Mi rendo conto di scrivere cose che a molti non piaceranno, e del resto altri ne hanno spiegato le ragioni con voci assai migliori della mia. Quindi soprassiedo su questo1Come anche su altre polemicucce agostane: in diversi in questi giorni mi hanno chiesto di scrivere del “vicario di Cristo” e delle ultime uscite di Viganò. Quanto alla prima, vorrei davvero provare a dire qualcosa di sensato, ma ho poco tempo e non posso permettermi questo lusso (dico solo che, se si coglie la metafora, togliere le catene dalle ruote quando non c’è piú ghiaccio sulla strada non è sbagliato né significa che aveva sbagliato chi per il ghiaccio le aveva montate); quanto alla seconda rimando al noto vecchio spot sul tè – «Anto’… fa caldo!».. Vorrei invece raccontare quel che parallelamente stava accadendo in Francia (visto che pochissimi se ne sono interessati, e tra questi puntuale si conta Davide Vairani): si parlava sempre di aborto, di autodeterminazione e di “conquiste di civiltà” regalate agli egoisti sulla pelle dei piú deboli, ma descrivendo un caso concreto ed eclatante dell’ormai non piú futuribile stato di polizia che sanziona gli psicoreati sanciti dalla cosca del politicamente corretto. Traduco perciò di seguito il riassunto commentato di Erwan Le Morhedec, di cui su queste pagine abbiamo già letto qualcosa, giornalista, saggista e avvocato francese.
La mia opinione
in libertà condizionata
Parlare di libertà non ha senso se non a condizione che si dia la libertà di dire alla gente quel che la gente non vuole sentirsi dire.
George Orwell, La fattoria degli animali, 1945
di Erwan Le Morhedec
Solo cinque giorni fa2[il post è del 6 agosto, dunque il fatto a cui l’autore si riferisce risale al 1o agosto, in concomitanza con il voto notturno per l’aborto in caso di “disagio psicosociale”, N.d.T.], confortevolmente installato su una sdraio estiva, mi è capitato di toccare il tema dell’aborto con una delle mie nipoti, desiderosa di confrontare l’educazione ricevuta con le sue domande. Le dicevo che, di fatto, il mio problema con l’aborto non è tanto nella sua legislazione, circa la quale posso comprendere alcune questioni relative alla salute pubblica, quanto piuttosto l’atto in sé, la sua istituzione a totem della République e l’approccio dogmatico che ad esso fa una parte notevole e potente del personale politico. Le dicevo la mia incomprensione davanti alla nostra incapacità di porci almeno l’obiettivo di ridurne drasticamente i numeri, e le ripetevo quel che scrivevo sei anni fa: la mia incredulità davanti all’ossessione di cui esso è oggetto. Perché in questi ultimi anni, oltre alla sua promozione pubblica per via di esposizione, i poteri pubblici hanno soppresso ogni informazione sulle alternative possibili all’aborto, hanno soppresso l’invocazione alla nozione già relativa di disagio, hanno soppresso il tempo di riflessione (col pretesto che esso tratterebbe le donne in modo infantile, mentre la medesima questione non sembra porsi per degli atti piú ordinarî o anche quotidiani) e hanno operato un giro di vite sull’espressione pubblica online sull’argomento… Quanti temi beneficiano di altrettanta attenzione da parte del legislatore?
Ma ho il diritto, oggi, anche solo di pensare queste cose e di esprimerle? Perché la condivisione su Facebook di un commento circostanziato (qui sotto) ha provocato l’intervento diretto di Libération e Facebook, nonché una esplicita minaccia sulla mia espressione.
L’origine del dibattito: l’iscrizione nella legge della nozione di “disagio psicosociale” come criterio di apertura all’aborto
Il punto di partenza è in effetti il voto dell’Assemblée Nationale a un emendamento socialista che mira a iscrivere nell’articolo L2213-1 del Codice della Pubblica Sanità il criterio del disagio psicosociale della donna incinta.
Bisogna ricordare che [in Francia, N.d.R.] l’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IMG) non è soggetta ad alcun limite temporale. L’aborto può quindi, in teoria, intervenire fino al termine della gravidanza. Non c’è ad esempio alcun limite alla pratica di un aborto su un bambino portatore di trisomia, che potrà intervenire al sesto, all’ottavo o al nono mese.
Ma qui non si tratta neanche piú di un aborto suscitato da una qualunque affezione del bambino non-nato. Si potrà trattare di un bambino sprovvisto di qualunque affezione e il cui sviluppo segue un percorso normale. Sebbene il bambino sia in piena salute, potrà essere soppresso nel seno della madre senza alcun limite di tempo.
È proprio questo che ci ha toccati – Jean-Pierre Denis e me, in termini che a posteriori quasi rivedrei nella misura. I condizionali e le precauzioni linguistiche non sarebbero serviti a niente: il post è stato pubblicamente marchiato come una «informazione parzialmente falsa», «verificata da fact-checkers indipendenti».
Libération ha dedicato alle proteste un articolo nella rubrica CheckNews, il cui succo è che non ci sarebbe da fare tanto baccano, visto che la pratica è già attualmente possibile, benché rara e strettamente regolamentata. Eppure è l’informazione di Libé ad essere… parzialmente falsa. Per almeno tre ragioni.
- Libé si fa scrupolo di introdurre il suo intervento imputando la reazione al «movimento ultraconservatore Alliance Vita», a Valeurs Actuelles e a «L’Incorrect (che difende l’unione delle destre)». Insomma, secondo i criterî di Libé, all’estrema destra. Il procedimento è quello consueto: screditare in anticipo la posizione espressa. Il disappunto [suscitato dal voto notturno, N.d.R.], però, è ben piú vasto, ed è il post di Jean-Pierre Denis ad essere stato segnato col marchio d’infamia: già direttore del settimanale La Vie, giornalista noto e rispettato, una delle voci attuali del cattolicesimo sociale che, se lo volessimo classificare politicamente, si faticherebbe non poco a dire di destra. Conseguentemente, è il mio gruppo quello che ha ricevuto l’avvertimento (e pure le mie pubblicazioni non sono in odore di santità, su quella stampa…). Evocare la vera ampiezza dello sdegno pubblico non avrebbe suscitato nel lettore la medesima reazione: bisognava quindi restringerne la portata. A costo di essere parzialmente falsi.
- Libé ci spiega quindi che iscrivere un criterio nella legge è indifferente. Il giurista che è in me trasecola. Il legislatore è forse verboso, ma evidentemente l’introduzione di un nuovo criterio nella legge non è cosa priva di conseguenze. Del resto potremmo cominciare a stupirci del fatto che simili aborti illimitati siano già stati praticati senza un fondamento legislativo chiaro, segno che anche la pratica stabilisce i suoi criterî proprî.
Nella fattispecie, è evidente che c’erano divergenze di accezione nella considerazione del “disagio psicosociale”. L’esistenza di queste divergenze merita considerazione. Ora l’integrazione di questo criterio nella legge conduce a silenziarle e ad arginare lo spazio di manovra di cui i medici potevano disporre. Inoltre, poiché il criterio figura nella legge, diverrà possibile esigere la realizzazione di un simile aborto come un diritto. Inversamente, chi tornerà piú a mettere in questione l’accezione del detto criterio? Chi verrà mai a contestare che la situazione psicosociale di una donna giustifica che si abortisca un bambino perfettamente sano? Pretendere che l’iscrizione di questo criterio nella legge non abbia incidenza alcuna è parzialmente falso. - Libé spiega ancora lungamente che il criterio sarebbe restrittivo, che sarebbe utilizzato raramente e riservato a casi gravi. Di fatto, questo criterio risulta avere un senso definito in psichiatria, e il testo del Codice della Pubblica Sanità esige la presenza di un «pericolo grave». Quando però Jean-Pierre Denis si allarma per una possibile «via parallela per rendere legali delle IVG senza limiti» ancora non arriva a esprimere l’intera realtà. Non si tratta di temere per l’avvenire: la deriva è già presente nei fatti, avallata e tamponata in alto loco!
In queste ultime settimane, in ragione dell’epidemia di Coronavirus, il ministro della Salute Olivier Véran ha effettivamente diffuso una circolare che permette di ricorrere all’aborto al di là dei termini legali, cosa che France Info presentava come «un modo discreto [!] di offrire un po’ di elasticità per assicurarsi che tutte le donne possano trovare una soluzione di accesso all’IVG durante questo periodo di quarantena».
Lo stesso si trova del resto in una Raccomandazione ufficiale del Ministero della Salute. Siamo ben lungi, qui, dai casi di stupro o d’incesto menzionati nell’articolo di Libération, e quest’unico esempio basta a sottolineare la malleabilità politica del criterio di “disagio psicosociale”. Bisogna quindi comprendere che, in queste ultime settimane e ancora in questi giorni, si procede all’aborto di bambini nascituri (secondo la terminologia che la stessa legge, nonché l’emendamento, usano) perfettamente sani, in nome di un preteso “pericolo grave” risultante dall’impossibilità di ricorrere all’aborto durante la quarantena. Affermare che il criterio sarebbe restrittivo e di applicazione rara è come minimo parzialmente falso.
Visto e considerato quanto abbiamo detto, dov’è allora l’“informazione parzialmente falsa”? Nel post di Jean-Pierre Denis, che ho condiviso, o nell’articolo di Libé? C’è una ragione qualunque per far prevalere un approccio sull’altro?
Aggiungete a tutto ciò che l’emendamento non è mai stato discusso durante i tre anni che è durato il processo di revisione della Loi Bioéthique, né davanti al Comitato Consultivo Nazionale di Etica, né durante gli Stati Generali della Bioetica, né davanti all’Assemblée Nationale o al Senato in prima lettura e che è spuntato d’estate, di notte, per essere votato dai pochi deputati che ancora erano in seduta! E allora davvero quelli che se ne scandalizzano meritano di essere marchiati con l’infamante sigillo di “propagatori di fakenews”?
La posta in gioco e le conseguenze: una minaccia esplicita sulla (anche mia) libertà di espressione
Allo stadio attuale, se evidentemente Libération ha facile gioco nel condurre il proprio lavoro e nell’esprimere il proprio approccio al tema, è già lecito interrogarsi sul principio stesso e sulla legittimità dell’intervento diretto di Libération e di Facebook in uno spazio personale di espressione per imporvi una sanzione. Sarebbe immaginabile l’inverso?
Sarebbe vero per chiunque. Ma Jean-Pierre Denis non è “chiunque”: è giornalista da piú di 25 anni, è stato direttore della redazione de La Vie fino a pochi giorni fa, è un professionista scrupoloso, riconosciuto dai suoi colleghi e che ha portato alti i valori del dibattito contraddittorio. Com’è possibile che un altro giornalista, quale che sia, si veda attribuire una qualunque preponderanza nell’analisi? Chi ha potuto giudicare che l’analisi di Pauline Moullot dovrebbe prevalere su quella di Jean-Pierre Denis?
Chi è stato, nella fattispecie, a segnalare il suo post, che peraltro niente faceva se non accompagnare il testo dell’emendamento (il quale – ironia del caso! – si ritrova ad essere marchiato di “parzialmente falso”) con tre righe di commento? Chi ha scelto di trattare un giornalista di chiara fama come un volgare piccolo propagandista?
E ancora, chi sono i “fact checkers indipendenti”? In un articolo del 6 febbraio 2017 Le Monde ne pubblicava la lista:
- L’Agenzia France-Presse (AFP);
- BFM-Tv;
- France Télévisions;
- France Médias Monde;
- L’Express;
- Libération e
- 20 Minutes.
Con la sola eccezione di BFM Tv, che del resto brilla per inerzia sull’argomento, questa lista traduce una singolare omogeneità di tendenza. Non c’è possibilità di trovare tra quei media un volontario che metta in dubbio la pertinenza dell’emendamento in causa. Se talvolta capita ad alcuni (tra cui, riconosciamolo, Checknews di Libé) di allontanarsi dalla linea ideologica dei loro media/milieu, si capisce però che la verifica delle informazioni sarà necessariamente a senso unico.
A margine: si legge in quell’articolo che ci vorrebbero due media per stabilire che il contenuto in causa è falso, e perché esso sia cosí segnalato. Effettivamente è il minimo che si possa esigere per prudenza. A quanto pare, il criterio ha fatto il suo tempo e basta l’opinione di uno solo fra i media elencati.
E poi chi sceglie gli argomenti? Chi scegliere di includere l’IVG tra gli argomenti tanto specifici da meritare un siffatto approccio? Nell’informazione, la stessa scelta di un argomento non è un fatto bruto e privo di implicazioni: non fatichiamo a comprendere che i nostri “fact-checkers indipendenti” non si prendono la briga di rettificare tutto quello che nell’Internet, potrebbe risultare parzialmente falso. E ci si potrebbe interrogare ulteriormente su come si passi dal trattare le informazioni false a quelle parzialmente false.
Arrivo a questo solo in seconda battuta, e a rischio di mancare d’umiltà, ma vorrei da parte mia che tutti sui social network dessero prova della medesima prudenza nell’espressione e del medesimo scrupolo nella verifica delle informazioni che si diffondono, in particolare su Facebook. A Libé accordo volentieri tutto il rispetto che merita per principio, ma non gli riconosco – né alla testata né alla sua giornalista – alcuna preponderanza su di me nell’analisi, specialmente su questo argomento.
Ora, le conseguenze di questo intervento per quanto mi riguarda sono chiare. La minaccia non è teorica, essa è al contrario ben circostanziata: per aver condiviso quel post, ho ricevuto un avvertimento comminatorio di Facebook. Il mio gruppo conterrebbe informazioni false. Se dovessi reiterare il mio comportamento, verrebbero presi provvedimenti punitivi per restringerne la visibilità. Non ho alcuna possibilità di discussione o di contestazione, non posso che eliminare il contenuto incriminato o sottopormi a quelle misure.
Ho optato per la seconda possibilità: far fronte alle conseguenze, perché evidentemente non sopprimerò alcun contenuto. Ma che significa questo? Significa che se continuo ad avere un’opinione differente dall’opinione comunemente ammessa dalla maggioranza dei media, Facebook si assicurerà che non mi si possa piú leggere. Ora, sull’argomento IVG è altamente probabile che io persista sfacciatamente nel non avere la medesima opinione di Libération. In pratica, o rinuncio ad esprimerla o corro il rischio che tutte le mie pubblicazioni siano rese invisibili su Facebook, prima (verosimilmente) di altre sanzioni. Non mi si proibisce ancora di avere la mia opinione, mi si suggerisce di tacerla e, in caso, la si rende invisibile.
Come però tutte le giurisdizioni riconoscono, non esiste libertà di opinione senza la libertà di espressione che l’accompagni.
Alcuni penseranno forse che si tratti solo di Facebook. Sarebbe stupido minimizzare il peso di Facebook sull’Internet (l’allestimento di questi strumenti lo comprova), e ancora di piú il delegare a chiunque il diritto di decidere le opinioni accettabili. Certamente resterà questo blog, sul quale resto libero di spiegarmi senza censure (salvo il fatto che potrebbero non farlo girare), ma per quanto tempo? Quanto tempo prima che WordPress o il mio provider mettano in campo uno strumento similare?
In Francia non abbiamo piú un Ministero dell’Informazione. Bisogna dunque che ne deleghiamo il controllo a degli organi privati? Supponendo che tali strumenti continuino a sussistere, dobbiamo come minimo esigere la possibilità di un ricorso contro Facebook davanti a un’istanza imparziale, e un pluralismo dei media di verifica.
Nell’immediato, mi contenterò di tornare a significare a Jean-Pierre Denis tutto il mio affetto e la mia stima e, da parte mia, la mia ferma intenzione di continuare a dire, con tutti i mezzi, quel che penso. Checché ne dicano.
Breve postilla:
Mentre sottoscriviamo l’abbraccio solidale a Jean-Pierre Denis vorremmo aggiungere una considerazione: l’orwelliano Ministero della Verità (che all’epoca de La fattoria degli animali e di 1984 satireggiava i Ministeri dell’Informazione, oggi li invera!) non è “una questione francese” e non è “una questione di Facebook”. I casi del giornalista investigativo David Daleiden e dell’attivista pro-life Lila Grace Rose, piú volte censurati e oscurati su Twitter, lo dicono. Né si tratta di “solo aborto”: lo dimostra il caso nostrano di Mario Adinolfi – su cui si sprecano risolini di millantata superiorità morale/intellettuale… ma raramente si controappuntano argomenti ficcanti e puntuali –, il quale stigmatizzava nei giorni scorsi la volgare speculazione di Francesca Pascale ai danni di Silvio Berlusconi.
Attenzione, qui non si fanno apologie del vecchio satrapo: già le vicende degli antichi Sansone e Salomone mostrarono come nessuno sia tanto forte o potente da non rovinarsi quando vive in balia della lussuria, che «di qua, di là, di giù, di sù li mena» (If V, 43); qui si nota con preoccupazione che i campi in cui è lecito dissentire dall’opinio communis vanno rarefacendosi, se pure ne è rimasto qualcuno.
Merita di essere riletta una delle pagine piú potenti de Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, che spiega insieme l’accanimento generale contro il dissenso dal mainstream e quello particolare contro la vita nascente:
Come il ferreo vincolo del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni nuovo essere umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo, così la forza autocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e la più pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione. Il regime totalitario può | esser sicuro solo nella misura in cui riesce a mobilitare la forza di volontà dell’uomo per inserirlo in quel gigantesco movimento della storia o della natura che usa l’umanità come suo materiale e non conosce né nascita né morte.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, pp. 648-649
Quando vi esaltano continuamente la libertà di pensiero e di espressione ma scoprite l’asprezza della censura verso chi dissente dal mainstream; quando voi stessi vi sorprendete a sentire nella vostra bocca tanti (e tanto superflui, anzi inutili) panegirici del libero pensiero, salvo sentirvi avvampare d’odio il-logico3Perché privo di argomenti. contro chi vedete pensare diversamente; quando pretendete di dialogare con tutti tranne che con chi non vi dà incondizionatamente ragione, allora dovreste preoccuparvi molto, e invece resterete tranquillissimi. Perché avete già smesso di pensare.
Note
↑1 | Come anche su altre polemicucce agostane: in diversi in questi giorni mi hanno chiesto di scrivere del “vicario di Cristo” e delle ultime uscite di Viganò. Quanto alla prima, vorrei davvero provare a dire qualcosa di sensato, ma ho poco tempo e non posso permettermi questo lusso (dico solo che, se si coglie la metafora, togliere le catene dalle ruote quando non c’è piú ghiaccio sulla strada non è sbagliato né significa che aveva sbagliato chi per il ghiaccio le aveva montate); quanto alla seconda rimando al noto vecchio spot sul tè – «Anto’… fa caldo!». |
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↑2 | [il post è del 6 agosto, dunque il fatto a cui l’autore si riferisce risale al 1o agosto, in concomitanza con il voto notturno per l’aborto in caso di “disagio psicosociale”, N.d.T.] |
↑3 | Perché privo di argomenti. |
Di’ cosa ne pensi