È da qualche giorno che attorno a me fioccano amici, conoscenti e sconosciuti che dichiarano di essersi trovati in certe “liste di proscrizione” telematiche, quelle approntate da qualcuno che sembrerebbe intenzionato a non perdere tempo, all’indomani della futuribile approvazione del ddl Zan, per mandare i loro nemici a godersi un po’ di sole a scacchi.
Pare che si debba scaricare un’estensione per il browser, quindi fare una ricerca e verificare se si risulti già nel novero dei proscritti. Non l’ho fatto e penso che non lo farò, e anzitutto – dicevo ieri tra amici già-proscritti – per due ragioni:
- la prima è che mi stupirei se non ci fossi (visto che già ci sono persone della cui proscrizione mi sono stupito, da quanto poco mi sembrino “omofobe”);
- la seconda, assai piú profonda e determinante, è che la cosa non mi riguarda.
Non intendo dire che abbiano fatto male gli amici a indulgere alla curiosità, né discuto l’enorme gravità della surrettizia reintroduzione dei reati d’opinione a neppure un secolo dal funesto ventennio fascista: dico che non posso sentirmi giudicato da un nugolo di persone deboli incattivite da problemi personali analoghi a quelli di chiunque e invigliacchite dalla pretesa che la causa dei loro mali stia fuori di loro e non in loro.
Anche in questo blog ho scritto contro le odiose discriminazioni che alcune persone patiscono in ragione del loro orientamento sessuale: mi sembra puerile stare a ripetermi in quello che ora sembrerebbe un’apologia – mentre invece non può esserci apologia alcuna perché a leggi liberticide che neppure determinano con esattezza la fattispecie del reato non si può conferire la minima legittimazione. Non ammetto la legge, non riconoscerei alcun tribunale, non potrei essere convinto del reato.
Quel che però volevo proporre, oggi, è una poesia. Una splendida poesia, una delle mie preferite di Pier Paolo Pasolini – chissà se l’hanno mai letto, Pasolini, i promotori del ddl e l’infelice orda di fanatici che dice di attenderne l’approvazione! – che dedico a Zan e Scalfarotto proprio come Pier Paolo, pochi mesi prima di morire, la dedicò a «un fascista giovane» che cerca «solo di difendere il latino / e il greco contro di me».
A è quasi sigùr che chista
a è la me ultima poesia par furlàn;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn.
Al è un fassista zòvin,
al varà vincia un, vincia doi àins:
al è nassùt ta un paìs,
e al è zut a scuela in sitàt.
Al è alt, cui ociàj, il vistìt
gris, i ciavièj curs:
quand ch’al scumìnsia a parlàmi
i crot ch’a no’l savedi nuja di politica
e ch’al serci doma di difindi il latìn
e il grec, cuntra di me; no savìnt
se ch’i ami il latin, il grec – e i ciavièj curs.
Lu vuardi, al è alt e gris coma un alpìn.
«Ven cà, ven cà, Fedro.
Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns
su di te: jo i sai ben, i lu sai,
ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài.
Difìnt i palès di moràr o aunàr,
in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Moùr di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.
Il ciaf dai to cunpàins, tosàt.
Difìnt i ciamps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat
tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.
I ciasàj a somèjn a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja,
ti lu sas, a è sapiensa santa.
Difìnt, conserva prea. La Repùblica
a è drenti, tal cuàrp da la mari.
I paris a àn serciàt, e tornàt a sercià
di cà e di là, nass’nt, murìnt,
cambiànt: ma son dutis robis dal passàt.
Vuei: difindi, conservà, preà. Tas:
la to ciamesa ch’a no sedi
nera, e nencia bruna. Tas! Ch’a sedi
’na ciamesa grisa. La ciamesa dal siun.
Odia chej ch’a volin dismòvisi
e dismintiàssi da li Paschis…
Duncia, fantàt dai cialsìns di muàrt,
i ti ài dita se ch’a volin i Dius
dai ciamps. Là ch’i ti sos nassùt.
Là che da frut i ti às imparàt
i so Comandamìns. Ma in Sitàt?
Scolta. Là Crist a no’l basta.
A coventa la Gl’sia: ma ch’a sedi
moderna. E a coventin i puòrs.
Tu difìnt, conserva, prea:
ma ama i puòrs: ama la so diversitàt.
Ama la so voja di vivi bessòj
tal so mond, tra pras e palàs
là ch’a no rivi la peràula
dal nustri mond; ama il cunfìn
ch’a àn segnàt tra nu e lòur;
ama il so dialèt inventàt ogni matina,
par no fassi capì; par no spartì
cun nissùn la so ligria.
Ama il sorel di sitàt e la miseria
dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.
Drenti dal nustri mond, dis
di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.
Puarta cun mans di sant o soldàt
l’intimitàt cu’l Re, Destra divina
ch’a è drenti di nu, tal siùn.
Crot tal borghèis vuàrb di onestàt,
encia s’a è ’na ilusiòn: parsè
che encia i parons, a àn
i so paròns, a son fis di paris
ch’a stan da qualchi banda dal momd.
Basta che doma il sintimìnt
da la vita al sedi par diciu cunpàin:
il rest a no impuàrta, fantàt cun in man
il Libri sensa la Peràula».
Hic desinit cantus. Ciàpiti
tu, su li spalis, chistu zèit plen.
Jo i no pos, nissun no capirès
il scàndul. Un veciu al à rispièt
dal judissi dal mond; encia
s’a no ghi impuarta nuja. E al à rispièt
di se che lui al è tal mond. A ghi tocia
difindi i so sgnerfs indebulìs,
e stà al zoùc ch’a no’l à mai vulùt.
Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:
puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri
la vita, la zoventùt.
È quasi sicuro che questa
è la mia ultima poesia in friulano:
e voglio parlare a un fascista,
prima che io, o lui, siamo troppo lontani.
È un fascista giovane,
avrà ventuno, ventidue anni:
è nato in un paese
ed è andato a scuola in città.
È alto, con gli occhiali, il vestito
grigio, i capelli corti:
quando comincia a parlarmi,
penso che non sappia niente di politica
e che cerchi solo di difendere il latino
e il greco contro di me; non sapendo
quanto io ami il latino, il greco – e i capelli corti.
Lo guardo, è alto e grigio come un alpino.
«Vieni qua, vieni qua, Fedro.
Ascolta. Voglio farti un discorso
che sembra un testamento.
Ma ricordati, io non mi faccio illusioni
su di te: io so, io so bene,
che tu non hai, e non vuoi averlo,
un cuore libero, e non puoi essere sincero:
ma anche se sei un morto, io ti parlerò.
Difendi i paletti di gelso, di ontano,
in nome degli Dei, greci o cinesi.
Muori d’amore per le vigne.
Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
Per il capo tosato dei tuoi compagni.
Difendi i campi tra il paese
e la campagna, con le loro pannocchie
abbandonate. Difendi il prato
tra l’ultima casa del paese e la roggia.
I casali assomigliano a Chiese:
godi di questa idea, tienla nel cuore.
La confidenza col sole e con la pioggia,
lo sai, è sapienza sacra.
Difendi, conserva, prega! La Repubblica
è dentro, nel corpo della madre.
I padri hanno cercato e tornato a cercar
di qua e di là, nascendo, morendo,
cambiando: ma son tutte cose del passato.
Oggi: difendere, conservare, pregare. Taci!
Che la tua camicia non sia
nera, e neanche bruna. Taci! che sia
una camicia grigia. La camicia del sonno.
Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque…
Dunque, ragazzo dai calzetti di morto,
ti ho detto ciò che vogliono gli Dei
dei campi. Là dove sei nato.
Là dove da bambino hai imparato
i loro Comandamenti. Ma in Città?
Là Cristo non basta.
Occorre la Chiesa: ma che sia
moderna. E occorrono i poveri
Tu difendi, conserva, prega:
ma ama i poveri: ama la loro diversità.
Ama la loro voglia di vivere soli
nel loro mondo, tra prati e palazzi
dove non arrivi la parola
del nostro mondo; ama il confine
che hanno segnato tra noi e loro;
ama il loro dialetto inventato ogni mattina,
per non farsi capire; per non condividere
con nessuno la loro allegria.
Ama il sole di città e la miseria
dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio
Dentro il nostro mondo, dì
di non essere borghese, ma un santo
o un soldato: un santo senza ignoranza,
o un soldato senza violenza.
Porta con mani di santo o soldato
l’intimità col Re, Destra divina
che è dentro di noi, nel sonno.
Credi nel borghese cieco di onestà,
anche se è un’illusione: perché
anche i padroni hanno
i loro padroni, e sono figli di padri
che stanno da qualche parte nel mondo.
È sufficiente che solo il sentimento
della vita sia per tutti uguale:
il resto non importa, giovane con in mano
il Libro senza la Parola».
Hic desinit cantus. Prenditi
tu, sulle spalle, questo fardello.
Io non posso: nessuno ne capirebbe
lo scandalo. Un vecchio ha rispetto
del giudizio del mondo: anche
se non gliene importa niente. E ha rispetto
di ciò che egli è nel mondo. Deve
difendere i suoi nervi, indeboliti,
e stare al gioco a cui non è mai stato.
Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii:
portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò
leggero, andando avanti, scegliendo per sempre
la vita, la gioventù.
E aggiungo in chiosa alcune righe di un autore (un altro) che i fascisti di cui sopra candiderebbero alla loro banale e vigliacca Bücherverbrennung: san Paolo. Proprio nell’Ufficio delle Letture di oggi, infatti, la Liturgia delle Ore proponeva il prezioso incipit della seconda Lettera ai Corinzi (1,1-14), e mi piace concludere qui riportandone gli ultimi versetti: dovrebbero spiegare con chiarezza sia perché combattiamo il ddl Zan sia perché non possiamo sentirci né tanto meno essere soggetti al suo giudizio.
Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza della carne ma con la grazia di Dio. Non vi scriviamo in maniera diversa da quello che potete leggere o comprendere; spero che comprenderete sino alla fine, come ci avete già compresi in parte, che noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro, nel giorno del Signore Nostro Gesú.
2Cor 1,12-14
Di’ cosa ne pensi