Bene per me se sono stato umiliato,
perché impari ad obbedirti:la legge della tua bocca mi è preziosa
Ps 118 (119), 71-72
piú di mille pezzi d’oro e d’argento.
Ogni volta che un grave evento colpisce una porzione piú o meno estesa del consorzio umano torna a porsi con proporzionata forza l’atavica e angosciosa domanda: “che sia un castigo di Dio?”. Chiaramente – ci verrebbe da pensare – subire un lieve tamponamento è un castigo di modesta entità, vedersi morire una persona cara un castigo feroce e di questo passo un evento globale assurge rapidamente a segnale della fine del mondo. Cose “apocalittiche”, diremmo con interessante nonchalance: sí, perché tale aggettivo rimanda al greco “ἀποκάλυψις” – che sta per “disvelamento”, “rivelazione”1Non a caso l’ultimo libro della Bibbia si chiama “Offenbarung” in tedesco, e “Revelation” in inglese. – e la prima cosa che dobbiamo dire dell’atavica e angosciosa domanda, se non intendiamo liquidarla superficialmente, è che essa ci rimanda perlomeno a un orizzonte di senso.
Il “tremendum et fascinosum” del Dio-che-castiga
Un Dio che castiga sarà anche un Dio severo, un Dio che si vendica rischierà di apparire perfino “poco divino”, ma perlomeno risulterà non anodina la questione della sua esistenza. Non solo: a guadagnare in sensatezza, davanti all’ipotesi teologica del castigo di Dio, è tutta quanta l’esistenza umana – e non a caso nei momenti di forte prova personale/sociale il senso religioso viene tanto sollecitato che spesso si rianima.
Dispiace quindi che l’ipotesi venga liquidata con tanta fretta, superficialità, banalità: dispiace non (tanto) in riferimento alla rivelazione giudaico-cristiana, ma anzitutto riguardo alla dignità umana. Nessun uomo intelligente dovrebbe scartare una domanda tanto attestata tra gli uomini, tanto radicata, tanto accorata: giustamente poi chi lo facesse adducendo a “ragioni” slogan come “Dio è amore” e “Dio è Signore della vita”2Entrambe verità bibliche, ma evidentemente parziali. meriterebbe di essere escluso dal confronto per mancanza di rispetto riguardo all’interlocutore.
Ho intravisto diversi scritti redatti in questi giorni in Italia, tutti sulla falsariga di «questa non è teologia, o meglio, è vecchia teologia» (cosí un frate francescano): sarebbe interessante conoscere la risposta della “nuova teologia” alla questione, ma sul punto si glissa, perlopiú, o si farfuglia. La teologia non si distingue in “vecchia” e “nuova”, ma in vera (e quindi buona) e falsa (e quindi cattiva). Il teologo cristiano parla di Dio all’uomo, dunque ponendo in corrispondenza le domande degli uomini e le risposte di Dio e sviluppandone un discorso dianoetico: negare le domande e censurare le risposte è un modo assai originale3Tale effettivamente è in latino uno dei significati dell’aggettivo “novus”. di intendere tale ministero.
Tre voci ecumeniche tedesche
Stamane mi è stato segnalato un breve articolo tedesco in cui si raccoglievano trasversalmente le posizioni di un pastore evangelico4Heinrich Bedford-Strohm, Presidente del Consiglio delle Chiese Evangeliche in Germania. e di un vescovo cattolico5Heiner Wilmer, ordinario di Hildesheim.. Perché non mancasse la quota rosa è stato poi aggiunto il decisivo commento di Katrin Brockmöller, insigne biblista teutonica:
Dio non punisce, Dio salva. Soprattutto i circoli conservatori stanno instaurando un legame tra Dio e la pandemia.
Uno slogan (anche contenutisticamente vero) e un’inferenza di carattere politico: sembra che funzioni cosí, la “nuova” teologia. Riguardo ai conservatori la biblista aggiunge:
L’idea descritta nel testo [dell’Apocalisse, N.d.R.], di una separazione violenta tra buoni e cattivi, tra il mondo malvagio da distruggere e quello buono tutto permeato di Dio, continua ancora oggi ad attrarre fondamentalisti. Costoro presumono di “essere tra i buoni” e credono di conoscere perfettamente l’unica volontà di Dio, e cosí diventano rapidamente sentinelle della vera fede, custodi del vero ordine e della morale.
Eppure la “dottrina delle due vie” si trova esposta cento volte in altrettante salse, nei libri che compongono il Canone… non vale piú? Quanto alla “unica volontà di Dio”, certamente essa è la salvezza dell’uomo: dunque i cristiani non hanno una parola da dire sul loro Dio, che lascia decimare la popolazione mondiale da un’entità cosí piccola che non sappiamo se catalogarla tra i viventi o no?
Piú articolata l’osservazione del pastore evangelico:
I cristiani credono che Dio si è rivelato in Gesú. Non può darsi che Dio mandi un virus al fine di uccidere gli uomini che Gesú ha salvato. I cristiani celebrano la Pasqua perché non la morte, ma la vita ha l’ultima parola. Tutti quelli che in questo momento aiutano e salvano vite sono in qualche modo le mani di Dio.
E chi oserebbe dissentire? Si deve però notare che:
- “dannare” (e non “uccidere”) è il contrario di “salvare” (e dunque la prima argomentazione appare traballante);
- la seconda invece è piú salda, a patto che non si identifichino stricto sensu “le mani di Dio” (che il buon vecchio Ireneo ritrovava nel Figlio e nello Spirito) con la brava gente che in questi giorni sta dando una mano, perché proprio quella gente ci dice di cercare conforto e sostegno proprio nel braccio di Dio.
Tranchant è stato il Vescovo, che cosí ha scritto sul Kölner Stadt-Anzeiger di lunedí:
Il pensiero di un Dio che punisce, che presenta all’umanità il conto dei peccati è terrificante e totalmente non-cristiana. Il Coronavirus non è un castigo divino.
«Peccato – mi veniva da dire facendo astrazione dalla mens apologetica e immedesimandomi nel lettore comune, magari neanche cristiano –: speravamo che poteste dirci qualcosa in merito». Effettivamente è stato questo l’unico commento che il tweet della KNA ha ottenuto: «Ma allora di preciso che fa il vostro Dio? Com’è una sua giornata-tipo?».
Non ci si può lamentare che sia l’irrisione a fare eco a un cristianesimo vagamente e superficialmente consolatorio: unicuique suum.
Un Pietro romano e un Nietszsche cristiano
Fortunatamente a Roma Pietro tiene saldo il timone e spiega non che non esisterebbe un giudizio divino, ma che in questo momento storico la rivelazione – l’Apocalisse – avviene per il nostro giudizio, non per il suo:
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21).
Medici e infermieri, sí, ma non solo: convertirsi, mutare radicalmente e intimamente stile di vita, non solo perché ce lo impongono i poteri politici e civili bensí per rinnovare il mondo dal suo interno, per essere fatti tramite del mistero pasquale nel mondo. “Vecchia teologia”, direbbero forse alcuni, e difatti il discorso del Papa non ha avuto grande eco in Germania (che c’entra la conversione col virus?): meno male che Pietro non ambisce ai titoli accademici e si premura anzitutto di rendere testimonianza a Gesú.
E sia chiaro (lo dico proprio a scanso di equivoci): non è che possa dirsi genuinamente cristiana la morbosa esultanza di quanti con voce impostata vanno collegando “questo castigo” a “quella colpa” – questa si potrebbe chiamare piuttosto la “sindrome di Giona”, che però (ce lo insegna la Scrittura) è destinata a restare frustrata dall’agire di Dio.
In realtà non ho ancora letto, tra gli autori moderni, un teologo che abbia scrutato tanto onestamente nel fondo della “domanda atavica e angosciosa” quanto Maurice Bellet, che nel suo Le Dieu pervers6Disgraziatamente ancora non disponibile in italiano. scrive:
La “guarigione” è […] ben piú che guarigione: non si riduce al sollievo, che pure è da principio necessario (Cristo non predica la croce ai ciechi o ai lebbrosi: li fa vedere, li risana). Essa è il cammino verso il desiderio altro. Essa fa, in un certo senso, entrare in un mondo di dolore; poiché significa affrontare nell’altro e anzitutto in sé stessi le resistenze che ha incontrato il terapeuta; ed è anche passaggio nella morte. Tuttavia, se perlomeno ne permane il senso, è nascita ed è vita.
Tutto questo non evapora in excelsis: è servizio, cura, condivisione, accoglienza, grande pazienza, non-giudizio, rifiuto delle complicità, parola buona, lavoro a breve e a lungo termine, tenerezza, fermezza, perdono (non la pallida mollezza di chi non sa difendersi, ma l’energia estrema necessaria a non ridurre l’altro ai suoi torti e di volerlo [far] e-sistere, al di là di tutto).
Percepire Cristo come terapeuta significa seguire questo principio: tutto quel che viene da lui ha per senso la cura, egli vuole la vita. E questo vale anche (ci ritorno, tanto è un punto decisivo!) per le parole di condanna: perché esse significano essenzialmente che egli rifiuta ogni complicità, che intende lavorare a fondo l’illusione e arrivare in capo alle resistenze. Altrimenti la sua stessa bontà sarebbe corrotta. E dunque egli offre a chi rifiuta lo specchio illuminante della parola dura, dando al contempo la via d’uscita. Perché dichiarare l’impasse è anche far sí che resti aperto il cammino (cosí facevano i suoi predecessori, i profeti di Israele). La condanna non condanna: poiché essa è ancora parola, vale a dire relazione. Per colui che apre il suo orecchio essa significa che proprio lui si trova già fuori dal luogo di morte che, nella sua necessaria durezza, il terapeuta fa finalmente venire alla luce. Era lí, questo è il punto: egli non inventa i nostri inferni, vi discende perché uscirne sia realmente possibile.
Maurice Bellet, Le Dieu pervers, 131-132
È come se Origene avesse letto Freud: cosí si fa buona teologia, e solo cosí nei nostri tempi – come ha fatto Bellet, come ha fatto il Papa7E anche come hanno fatto alcuni bravi vescovi, tra cui l’eccellentissimo Michel Aupetit. – ho visto rispondere sensatamente (e da cristiani) all’atavica e angosciosa domanda la quale, pure nello sbigottimento e sull’orlo della disperazione, implora dall’arcano grembo celeste un nichelino di senso. Cosa che ai cristiani non sarebbe lecito lesinare.
Note
↑1 | Non a caso l’ultimo libro della Bibbia si chiama “Offenbarung” in tedesco, e “Revelation” in inglese. |
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↑2 | Entrambe verità bibliche, ma evidentemente parziali. |
↑3 | Tale effettivamente è in latino uno dei significati dell’aggettivo “novus”. |
↑4 | Heinrich Bedford-Strohm, Presidente del Consiglio delle Chiese Evangeliche in Germania. |
↑5 | Heiner Wilmer, ordinario di Hildesheim. |
↑6 | Disgraziatamente ancora non disponibile in italiano. |
↑7 | E anche come hanno fatto alcuni bravi vescovi, tra cui l’eccellentissimo Michel Aupetit. |
Ho riflettuto in questi giorni sul concetto di “castigo divino” che da taluni viene sollevato per fornire una risposta teologica agli eventi in corso.
Ho però cercato di osservare la questione da un’altra prospettiva, quella della sua utilità nell’attuale contesto socio-culturale.
Mi sono chiesto quale presa sulle coscienze possa avere un concetto come quello di un Dio che castiga gli uomini per i propri peccati nel tentativo di farli convertire in una società largamente secolarizzata che di Dio si è in larga parte dimenticata.
Un conto è parlare di Dio che castiga in un contesto socio-culturale sensibile all’esistenza di Dio, ma in uno largamente scristianizzato può avere un qualche reale effetto al di fuori di una minoranza già almeno in parte timorata di Dio?
Chi di Dio non si è mai preoccupato, difficilmente comincerà a preoccupersene perché è costretto a subire qualche settimana di quarantena o a seguire le notizie che arrivano dal fronte al TG, senza magari esserne coinvolto in prima persona. Più probabile che dia la colpa alla sfortuna, alle abitudini culinarie dei cinesi, alle inefficienze governative, che pensare a Dio che lo castiga per i suoi peccati.
Se un evento come quello che stiamo vivendo può dunque certamente aumentare la sete di risposte, di senso, testimoniata anche dagli ascolti in TV in occasione della benedizione papale, e finanche favorire la conversione di qualche persona toccata intimamente dalla tragedia – e in questo si scorge il bene che Dio è in grado di tirare fuori anche dal male – non riesco a vederci una possibilità di conversione di massa.
Anche per questo credo poco all’ipotesi “castigo di Dio”: Dio, proprio perché ha come fine che il peccatore si converta e viva e non che muoia, penso abbia a disposizione metodi più efficaci di eventuali generici castighi per raggiungere lo scopo, se non altro in questa epoca.
Grazie di questo intervento, Vincenzo.
Quel che dici è tutto vero, difatti non m’illudo che siano “le piaghe” a far rinsavire le persone, per quanto resti vero sia il contenuto del salmo con cui aprivo questo post sia quello che recita “ma l’uomo nella prosperità non comprende: / è come gli animali che periscono” (Ps. 48[49],13).
Appunto riflettendo su questa strana ambivalenza un ignoto autore del V secolo (che certa critica ritenne pelagiano, ma a mio giudizio sbagliandosi di grosso – dico “mio giudizio” perché di quest’opera ho co-curato la prima edizione italiana) ha osservato:
E poco oltre:
L’esperienza del dolore e della sofferenza è comune in tutti: in alcuni però essa produce docilità, in altri ribellione, ed è pressoché inattingibile la ragione di tale distinzione.
Personalmente, ricordo della mia nonna paterna che mi recitava una poesia imparata da lei in parrocchia ormai non pochi decenni fa: «Io sono nato – questo il verso che mi è rimasto piú impresso – per portare la croce». Le generazioni cresciute con questo κήρυγμα non stavano a chiedersi “e dov’è Dio in tutto ciò?!” non appena subivano la puntura di una zanzara, e ho voluto scrivere questa pagina proprio per dire che forse proibendo a noi stessi di porre la domanda sui castighi (e perché Dio non avrebbe ragione di castigarci? – «La mia anima [diceva Teresa d’Avila] ha ben meritato l’inferno») ci siamo persi qualcosa. Abbiamo tentato di esorcizzare “il Dio perverso”, per dirla con Bellet, ma talvolta il risultato è stato un Dio dalla perversione appena camuffata.
Anni fa provavo difficoltà, durante la Confessione, a recitare nell’Atto di dolore la formula “perché peccando ho meritato i tuoi castighi”, e col permesso del padre spirituale la mutai in “perché peccando ho meritato ogni castigo”. Ho usato questa formula per molti anni, ma sempre piú la mia modifica mi sembra insufficiente, ovvero carente in un modo diverso rispetto alla carenza che riscontravo nell’altra. Quel che oggi mi pare difettare all’una e all’altra è proprio il portato della formula typica – “pœnas a te iuste statutas” –: Dio «non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13), ma la formula della “permissio omissiva” mi pare ancora incompleta per dire il rapporto tra Dio e il male che subiamo come pena, sussistendo invece una precisa benché non sempre enunciabile causalità tra i due termini. La colpa comporta una pena, e di questo nesso (che al Cristo sarebbe costato la Passione!) Dio è lucido sostenitore e garante: beati gli uomini cui è dato di (e che riescono a) tenere fisso lo sguardo in queste cose (cf. 1Pt 1,12) senza patirne scandalo.