Ieri m’ero messo a scrivere questo post quando mia moglie mi ha segnalato che l’ottimo Giovanni Scifoni aveva già prodotto uno dei suoi spassosi video domestici: e niente – mi dicevo – una bozza in piú finita nel cestino, pazienza.
Poi l’ho raccattata dal cestino, la bozza, e rileggendola mi sono detto che forse non era completamente “bruciata”, e mi sono convinto che anzi potesse ancora fungere da contorno ai bellissimi 90 secondi del video di Giovanni. Poco piú di una settimana fa passavo per il centro di Roma e, nel transitare l’ennesima volta davanti al Palazzo della Provincia (per i non romani: Palazzo Valentini, in Via IV Novembre) mi sono incredibilmente commosso davanti alle statue di Sandro Chia collocate all’ingresso nel 135o anniversario dell’amministrazione provinciale.
L’“antiquo valore”
Debbo spiegare quell’ultimo avverbio usato, che non vuole certo suonare insultante nei confronti dello scultore: classicista per formazione, ho sempre guardato allo slanciato gruppo dell’Enea con Anchise e Ascanio ripensando con un sospiro all’omonimo capolavoro di Gian Lorenzo Bernini, al quale del resto lo stesso artista fiorentino ispira la slanciata composizione del proprio.
Eppure le sculture di Chia mi hanno commosso, l’ultima volta che ci sono passato davanti, perché mi sono risuonati in petto due possenti versi di Petrarca:
…ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.
Francesco Petrarca, Italia mia, 95-96
Il poeta però parlava della minorità indotta al popolo italico dal vassallaggio straniero e dal frazionamento comunale: noi viviamo in un Paese unito da piú di un secolo e mezzo (e comunque giovanissimo), un Paese che anzi è stato nel secolo scorso interprete di primo piano dell’avventura comunitaria europea (il sogno di Giulio Cesare, di Carlomagno e di Napoleone… ma realizzato nella pace). Dunque qual è l’insidia che richiede l’esercizio della nostra virtú, e quale è appunto la virtú dell’“antiquo valore”?
«Arpa d’or de’ fatidici vati!»
È noto che Virgilio scrisse l’Eneide come mito fondativo di Roma e della Gens Iulia, alla cui corte stava; senz’altro il poeta dovette indulgere, nella scrittura, a una certa idealizzazione del mos romanum (cose come l’Affaire Ovidio e personaggi quali l’indomabile Giulia Maggiore ce lo ricordano): sarà il clima, sarà il mare, ma gli abitanti di «questo benedetto assurdo Belpaese» (Guccini su Dante) non sono mai stati dediti a una qualche monolitica virtú, se venti secoli piú tardi il Capitano Corelli potè dire “Siamo italiani: famosi nel mondo per cantare, mangiare e fare l’amore”. I greci in mezzo a cui Corelli e i suoi uomini erano stati mandati dallo sciagurato governo nazifascista aiutavano spesso i soldati italiani, specie se disertori, riconoscendo in essi della “brava gente”. Ecco il paradosso del nostro popolo: capacissimo di godersi la vita e versatissimo nell’affinamento dei mezzi migliori per godersela, esso è pure da un lato disgraziatamente inetto nella scienza politica e dall’altro inguaribilmente generoso nello spendersi in caso di bisogno. Per sé o per altri, cambia poco. E mentre fa tutto ciò mostra una spiccata propensione ad affidarsi al Cielo – qualunque cosa vi creda contenuto.
Tutto questo Virgilio lo chiamò “pietas”, e ne fece l’attributo principale del suo eroe, come l’ira (ὁργή) era stata quello di Achille e l’astuzia (μήτις) quello di Odisseo: l’eroe del poema fondativo romano è impregnato di un senso dell’onore che si sente offeso dal pensiero che tutto il suo mondo vada in fiamme per via di un’adultera (e difatti vorrebbe ucciderla) ma che viene ricondotto a ragione dalle parole della divina madre (Venere) e dalla rivelazione per cui è «l’inclemenza degli dèi, proprio degli dèi!» ad «abbattere Troia dalla cima».
Nate, quis indomitas tantus dolor excitat iras?
quid furis? aut quonam nostri tibi cura recessit?
non prius aspicies ubi fessum aetate parentem
liqueris Anchisen, superet coniunxne Creusa
Ascaniusque puer? quos omnis undique Graiae
circum errant acies et, ni mea cura resistat,
iam flammae tulerint inimicus et hauserit ensis.
non tibi Tyndaridis facies inuisa Lacaenae
culpatusue Paris, diuum inclementia, diuum
has euertit opes sternitque a culmine Troiam.
aspice (namque omnem, quae nunc obducta tuenti
mortalis hebetat uisus tibi et umida circum
caligat, nubem eripiam; tu ne qua parentis
iussa time neu praeceptis parere recusa):
hic, ubi disiectas moles auulsaque saxis
saxa uides, mixtoque undantem puluere fumum,
Neptunus muros magnoque emota tridenti
fundamenta quatit totamque a sedibus urbem
eruit. hic Iuno Scaeas saeuissima portas
prima tenet sociumque furens a nauibus agmen
ferro accincta uocat.
iam summas arces Tritonia, respice, Pallas
insedit nimbo effulgens et Gorgone saeua.
ipse pater Danais animos uirisque secundas
sufficit, ipse deos in Dardana suscitat arma.
eripe, nate, fugam finemque impone labori;
nusquam abero et tutum patrio te limine sistam
Figlio, quale sì grande dolore eccita ire indomite?
Perchè t’infurii? o dove sen’è andata per te la premura di noi?
Non guarderai prima dove abbia abbandonato il padre Anchise,
stanco per l’età, se la moglie Creusa sopravviva
el il piccolo Ascanio?Ma tutte le schiere graie dovunque li
attorniano e, se la mia cura non assistesse,
già le fiamme li avrebbero avvolti e la spada nemica uccisi.
Non ti sia odiosa la vista della lacena tindaride
o incolpato Paride, l’inclemenza degli dei, proprio degli dei,
distrugge questi beni e abbatte Troia dalla cima.
Infatti guarda tutta la nube, che ora calata ti offusca
mentre scruti gli sguardi mortali ed attorno umida
s’addensa, la toglierò; tu non temere gli ordini della madre
e non rifiutare di obbedire ai comandi:
qui, dove vedi gli edifici divelti e le pietre strappate
dalle pietre el il fumo ondeggiante con mista polvere,
Nettuno scuote le mura e le fondamenta smosse
dal grande tridente e sradica tutta la città dalle sedi.
Qui Giunone crudelissima occupa per prima le porte
scee e furente, cinta di spada, chiama la truppa alleata.
Già Pallade tritonia, osserva, ha occupato la sommità
delle rocche sfolgorante col nembo e la crudele Gorgone.
Lo stesso padre offre ai Danai coraggio e forze propizie,
lui stesso sprona gli dei contro le armi dardane.
Togliti, figlio, imponiti la fuga e la fine all’affanno;
mai m’allontanerò e ti assisterò sicuro sulla soglia paterna
Virgilio, Eneide, II, 594-620
Tornato a casa, Enea è preso dal pensiero della patria perduta e sente il dovere di onorarla col proprio sangue, visto che aveva capito essere futile il desiderio di vendicarla con l’uccisione di Elena. Lí in casa è la famiglia a fare la corretta esegesi dei suoi sentimenti e a rivelargli – come vero magistero complementare delle parole di Venere – dove quelle energie meritassero di essere incanalate:
Hinc ferro accingor rursus clipeoque sinistram
insertabam aptans meque extra tecta ferebam.
ecce autem complexa pedes in limine coniunx
haerebat, paruumque patri tendebat Iulum:
«Si periturus abis, et nos rape in omnia tecum;
sin aliquam expertus sumptis spem ponis in armis,
hanc primum tutare domum. cui paruus Iulus,
cui pater et coniunx quondam tua dicta relinquor?»
Talia uociferans gemitu tectum omne replebat,
cum subitum dictuque oritur mirabile monstrum.
namque manus inter maestorumque ora parentum
ecce leuis summo de uertice uisus Iuli
fundere lumen apex, tactuque innoxia mollis
lambere flamma comas et circum tempora pasci.
nos pauidi trepidare metu crinemque flagrantem
excutere et sanctos restinguere fontibus ignis.
at pater Anchises oculos ad sidera laetus
extulit et caelo palmas cum uoce tetendit:
«Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,
aspice nos, hoc tantum, et si pietate meremur,
da deinde auxilium, pater, atque haec omina firma».
Vix ea fatus erat senior, subitoque fragore
intonuit laeuum, et de caelo lapsa per umbras
stella facem ducens multa cum luce cucurrit.
illam summa super labentem culmina tecti
cernimus Idaea claram se condere silua
signantemque uias; tum longo limite sulcus
dat lucem et late circum loca sulphure fumant.
hic uero uictus genitor se tollit ad auras<
adfaturque deos et sanctum sidus adorat.
«Iam iam nulla mora est; sequor et qua ducitis adsum,
di patrii; seruate domum, seruate nepotem.
uestrum hoc augurium, uestroque in numine Troia est.
cedo equidem nec, nate, tibi comes ire recuso».
dixerat ille, et iam per moenia clarior ignis
auditur, propiusque aestus incendia uoluunt.
«Ergo age, care pater, ceruici imponere nostrae;
ipse subibo umeris nec me labor iste grauabit;
quo res cumque cadent, unum et commune periclum,
una salus ambobus erit. mihi paruus Iulus
sit comes, et longe seruet uestigia coniunx.
uos, famuli, quae dicam animis aduertite uestris.
est urbe egressis tumulus templumque uetustum
desertae Cereris, iuxtaque antiqua cupressus
religione patrum multos seruata per annos;
hanc ex diuerso sedem ueniemus in unam.
tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis;
me bello e tanto digressum et caede recenti
attrectare nefas, donec me flumine uiuo
abluero».
haec fatus latos umeros subiectaque colla
ueste super fuluique insternor pelle leonis,
succedoque oneri; dextrae se paruus Iulus
implicuit sequiturque patrem non passibus aequis;
pone subit coniunx. ferimur per opaca locorum,
et me, quem dudum non ulla iniecta mouebant
tela neque aduerso glomerati examine Grai,
nunc omnes terrent aurae, sonus excitat omnis
suspensum et pariter comitique onerique timentem.
Allora di nuovo mi cingo della spada e adattandola inserivo
la sinistra allo scudo e mi portavo fuori di casa.
Ma ecco la sposa sulla soglia abbracciandomi i piedi
s’attaccava e tendeva al padre il piccolo Iulo:
«Se parti per morire, prendi anche noi con te per ogni caso;
se invece sperimentatolo, poni qualche speranza nelle armi indossate,
assicura prima questa casa. A chi il piccolo Iulo,
a chi il padre ed io un tempo detta tua sposa sono lasciata?»
Così gridando riempiva di pianto tutta la casa,
quando improvviso si mostra un prodigio, mirabile a dirsi.
infatti tra le mani ed i volti dei tristissimi genitori
ecco il leggera ciuffo di Iulo dalla cima della testa sembrò
spandere una luce ed una innocua fiamma, morbida al tatto
lambire i capelli ed appagarsi intorno alle tempia.
Noi spaventati dalla paura trepidiamo e scuotiamo la chioma
bruciante e spegnere con acque i santi fuochi.
Ma il padre Anchise lieto alzò gli occhi alle stelle
e tese le palme al cielo con una preghiera:
«Giove onnopotente, se ti pieghi a qualche supplica,
guardaci, solo questo, e se meritiamo per la virtù,
da’ poi aiuto, padre, e conferma questi presagi».
Aveva appena parlato il vecchio ed il lato destro
tuonò d’improvviso fragore, ed una stella caduta dal cielo
recando una fiamma tra le ombre corse con intensa luce.
La vediamo luminosa sopra la sommità del tetto
nascondersi cadendo nella selva idea segnalando le vie;
poi per lungo tratto il solco
dà luce e vastamente attorno i luoghi fumano di zolfo.
Allora davvero il padre vinto si alza verso il cielo
e parla agli dèi ed adora la santa stella.
«Nessun indugio mai più; vi seguo e dove guidate ci sono,
o dei patrii; salvate la casa, salvate il nipote.
questo presagio è vostro e Troia sotto la vostra protezione.
Vengo senz’altro, figlio, né rifiuto di venirti compagno».
Egli aveva parlato e già per le mura si sente più chiaro
il fuoco, e più vicino gli incendi lanciano vampe.
«Suvvia, caro padre, mettiti al nostro collo;
io mi sottoporrò con le spalle né questa fatica mi peserà;
Comunque accadranno le cose, uno e comune il pericolo,
unica salvezza ci sarà per entrambi. Mi sia compagno il piccolo
Iulo, e dietro la sposa segua le orme:
Voi, servi, osservate coi vostri cuori quello che io dica.
C’è, usciti dalla città un’altura ed un tempio antico
di Cerere abbandonata, e vicino un vecchio cipresso
serbato per molti anni dalla religiosità dei padri;
arriveremo da punti diversi a quest’unico luogo.
Tu, padre, prendi in mano le cose sacre ed i patrii penati;
è sacrilegio che io uscito da sì grande guerra e strage
recente li tocchi, finché con fiume vivo mi sarò lavato».
Detto questo, mi ricopro sopra le larghe spalle ed
i colli curvati d’una pelle di biondo leone,
e mi sottopongo al carico; il piccolo Iulo si attaccò
alla destra e segue il padre con passi non uguali;
dietro viene la sposa. Ci portiamo per luoghi oscuri,
e me, che nessuna arma scagliata poco prima impauriva,
né i Grai riuniti co schiera avversa,
ora tutti i soffi mi atterriscono; ogni suono mi agita
perplesso ed ugualmente titubante per il compagno ed il carico.
Ivi, II, 671-729
«Per ricondurre il cuore del padre verso il figlio» (Sir 48,10)
Quel che non temeva per sé, Enea lo teme per il padre che porta sulle spalle e per la famiglia che lo segue al passo: eppure è in loro compagnia che Giove Onnipotente gli ha manifestato il suo favore, dunque il furibondo ardore di prima si sublima in autentico coraggio ed Enea comincia a diventare prima un esule, quindi un pellegrino, per ritrovarsi poi padre di un’intera nuova civiltà. Il bagaglio è minimo: gli dèi. Nient’altro serve, e anzi Enea in armi non si ritiene adatto a portare quel bagaglio: sarà Anchise a portarlo1Nel gruppo di Chia, a differenza di quello di Bernini, i penati non si vedono perché Anchise li porta in una borsa. Scelta dettata da ragioni estetiche, pratiche o teoriche? Forse le tre cose insieme., ed Enea porterà Anchise.
Immagine potentissima, che supera la retorica allegoria de “i valori custoditi dai nostri nonni”: i penati sono divinità ma pure membri della famiglia – sono le radici della casa, della memoria, sono ciò che va salvato ad ogni costo e che nessun individuo può portare da sé – sono il patrimonio di una comunità.
Per questo è dissennato minimizzare il Coronavirus affermando che «tanto si porta via i vecchi»: la verità è che se Anchise morisse o venisse preso per matto, non solo Enea e la sua famiglia non porterebbero con loro il sacro carico dei penati, ma neppure avrebbero trovato la risoluzione di fuggire, salvando la civitas mentre l’urbs andava a fuoco.
Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere un tweet (qui di lato) che ha provocato in me sensazioni contrastanti: la figlia di questa donna ha detto parole sagge e vere, che confermano presente «l’antiquo valore / ne gli italici cor’»… però mi pare aberrante che un giovane genitore “stimi immensamente” un figlio giovane. Forse la parola è stata soppesata poco, e sicuramente una diciottenne è virtualmente un’adulta, però non riesco a immaginarmi che un genitore possa “stimare” un figlio: anzitutto lo guarderà con trepidazione e speranza, poi lo esorterà e incoraggerà… e facilmente potrà esserne fiero, anche fierissimo; qualche volta deluso o/e amareggiato. Ma la stima è un senso proprio del subalterno estraneo, neppure perfettamente adatto a dire i sentimenti dei figli verso i genitori (quanto meno il contrario!).
Ecco il punto: una volta che la famiglia abbia indicato ad Enea il senso delle monizioni celesti, è l’eroe che pianifica la via di fuga, si fa carico della tremenda responsabilità (davanti alla quale il corpo del vecchio padre è davvero un fuscello) e dispone gli ordini per attuare il piano. La nostra Europa2Può sembrare che l’altra scultura di Chia non mi abbia detto niente, mentre tutto questo la prima me l’ha detto nel muto dialogo con la seconda… invece è sempre piú largamente in mano a uomini senza figli, i quali sono necessariamente figli irrisolti animati da perenni ed estenuanti complessi edipici, narcisisti egocentrici ignari di qualsivoglia realtà superi il proprio personale e immediato tornaconto.
Per questo è ovvio e al contempo drammatico che alcune sanità europee neppure si facciano carico degli ultraottantenni affetti da Covid-19: il momentaneo rallentamento all’economia, anzi, troverà una subitanea controparte nell’alleggerimento del welfare.
Rileggiamo3«Un classico è un libro che moltissimi non hanno mai letto – diceva Calvino – ma di cui tutti, quando lo prendono in mano, dicono “lo rileggo!”». l’Eneide, in questi giorni, e purifichiamoci il cuore dall’isteria romantica dell’eroe solitario: Enea merita di dare un nome a un’epopea, a un popolo e a una civiltà plurimillenaria perché non è solo e sa concepirsi come momento di una tradizione – ha un padre, una moglie e un figlio, e quel che fa lo fa per loro e con loro, sotto un Cielo benevolo e propizio. Per questo – poiché lo fa in modo sublime – ne viene costituito capostipite.
Un popolo “esperto del patire”
Un’ultima cosa vorrei dire su questa virtú – quella di cui Petrarca vaticinava che avrebbe dovuto prendere le armi «contra furore» –: essa è virtú dei miti, di chi sa sopportare lungamente e ogni giorno rinuncia a fare la Rivoluzione (benché spesso si lasci governare da imbroglioni e faccendieri che meriterebbero Robespierre) però spezza il proprio pane con tutti.
Mio fratello condivideva con me un simpatico meme (qui a destra) commentando: «Altro che “siam pronti alla morte!”». E io di rimando gli dicevo che difatti quel verso non lo canto mai, nell’Inno di Mameli. Anzi, canto controvoglia tutto l’inno, e solo quando non ho modo di evitarlo: il testo del giovane Goffredo è proprio l’inno che si potrebbe addire a Enea se nell’ultima notte di Troia avesse ucciso Elena, se non fosse tornato a casa, se avesse salvato la propria pelle (magari limitandosi comodamente a sostituire Sicheo sul trono di Cartagine e nel letto di Didone) rinunciando a far rinascere un’antica tradizione dalle ceneri della storia.
Anche per questo vorrei tanto (ancora di piú in frangenti come l’emergenza che stiamo vivendo) che finalmente la Repubblica italiana adottasse il Va’ pensiero del Nabucco di Verdi come suo inno nazionale:
Oh, t’ispiri il Signore un concento
che ne infonda al patire virtú.Al patire
virtú.
Note
↑1 | Nel gruppo di Chia, a differenza di quello di Bernini, i penati non si vedono perché Anchise li porta in una borsa. Scelta dettata da ragioni estetiche, pratiche o teoriche? Forse le tre cose insieme. |
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↑2 | Può sembrare che l’altra scultura di Chia non mi abbia detto niente, mentre tutto questo la prima me l’ha detto nel muto dialogo con la seconda… |
↑3 | «Un classico è un libro che moltissimi non hanno mai letto – diceva Calvino – ma di cui tutti, quando lo prendono in mano, dicono “lo rileggo!”». |
Di’ cosa ne pensi