Questa mattina un’amica che vive Oltreoceano ha portato alla mia attenzione il caso di Keira Bell, ventitreenne britannica che ha intentato causa al Sistema Sanitario Nazionale per le violenze a cui è stata esposta a causa dell’insipienza di alcuni suoi segmenti… e (incredibilmente) la sta vincendo.
La storia inizia col noto incipit: c’era una volta un’adolescente confusa che non trovava pace con la propria identità (cosa che riguarda gli adolescenti per definizione); appena liceale, la ragazza chiese di essere chiamata con un nome maschile e gradualmente si persuase che fosse quella la via per giungere a colmare i suoi vuoti. A quel punto una società capace di uno sguardo maturo e sapiente – ma anche semplicemente “adulto” – avrebbe disposto a difesa di quel proprio membro fragile alcuni elementari accorgimenti:
- l’avrebbe protetta dal bullismo;
- l’avrebbe accompagnata nella crescita;
- l’avrebbe preservata dall’autolesionismo.
Invece la società era piú adolescente di lei ed ha applicato il solo (paradossale) dogma della sua religione atea: “vietato vietare”, altra declinazione di “potere alla fantasia”. Cosí la sedicenne è stata spedita al Tavistock & Portman NHS Center, prima “gender clinic” londinese, dove (a spese del SSN) le sono state somministrate “powerful drugs” per inibire il decorso naturale della già avviata pubertà:
Ho avuto sintomi simili a quelli della menopausa, quando vengono meno gli estrogeni dell’ovulazione: vampate di calore, difficoltà a dormire, crollo della libido. Mi hanno dato pasticche di calcio perché le mie ossa si indebolivano.
Dopo quattro anni di questo trattamento (e sempre a spese del SSN) le è stata praticata una mastectomia totale – tradotto: i due seni (belli e sani) di una ventenne sono stati amputati e gettati tra i rifiuti ospedalieri da “medici” – per “proseguire il percorso”.
La titolazione del Daily Mail è fallace e trae in inganno: a seguire quella, si direbbe che il problema fosse che le “drugs” erano “experimental”, e non si capisce se la giovane Keira si lamenti del fatto che il personale medico non l’ha ostacolata quando ha avviato la “transizione” o quando l’ha bloccata. Leggendo le sue dichiarazioni, invece, il problema risalta chiarissimo: al Tavistock & Portman NHS Trust vengono portati perfino bambini dodicenni a subire il predetto trattamento. Keira racconta di essere stata contattata da “centinaia di giovani adulti” (alcuni dei quali ancora teenagers o ventenni) che le confidavano come anche a loro il trattamento non sia stato di alcuna utilità quanto al fine ultimo preposto – cioè quello di trovare pace con la propria identità sessuale.
Pare che il governo britannico si stia ponendo qualche domanda sull’effetto “collo di bottiglia” che le statistiche sulle domande di transizione di genere rilevano: nel biennio 2009/2010 in UK furono avviate al trattamento 40 minorenni femmine e 57 maschi; nel biennio 2017/2018 le minorenni erano lievitate a 1.806 e i minorenni a 713.
La notizia di Keira – piú precisamente: del fatto che abbia aperto gli occhi e denunciato il NHS (e ancora di piú che stia vincendo la causa!) – mi ha dato una scintilla di gioia perché – malgrado l’enorme ingiustizia a cui difficilmente e a fatica, se non parzialmente, si potrà porre rimedio – essa è forse uno scricchiolio della “morale dell’autodeterminazione”, che ancora sembra l’unica direttrice etica oggi socialmente portabile. L’imperativo pratico kantiano – «agisci sempre in modo tale da considerare la persona sempre fine in sé e mai mezzo» – figura ancora tra le citazioni passabili, ma in sostanza è tramontato da un pezzo: se la depenalizzazione dell’aborto ha reso di fatto lecito «uccidere una persona per risolvere un problema, come fa la mafia» (© Papa Francesco), è da un pezzo che l’ingegneria genetica ha trasformato i bambini in mezzi per assecondare il “desiderio di genitorialità”; il business del transessualismo, poi, compie il capolavoro faustiano di portare la persona a disporre di sé stessa come di un mezzo invece che come di un fine. Ciò comporta una sorta di suicidio a rate, e non a caso le “battaglie di civiltà” del nostro tempo puntano largamente allo sdoganamento del suicidio.
Solo che dal suicidio non si torna indietro – magari si lamenteranno i parenti, come nel (troppo poco) noto documentario Euthanasie, jusqu’où ? –, mentre da quella larvata autodistruzione che è il transessualismo ci si può riprendere, come è appunto capitato a Keira. Ora la Fondazione Tavistock & Portman dichiara di salutare positivamente
l’opportunità di parlare del servizio e di poter assistere lo staff che pone il best interest dei giovani e delle loro famiglie al cuore della loro pratica.
Ogni volta che il NHS parla di “best interest” ci passa un brivido per la schiena, ma non possiamo fare a meno di notare che nei tristi casi di Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup e moltissimi altri innocenti il best interest consiste nel negare loro la possibilità di autodeterminarsi, mentre per i dodicenni confusi sembra consistere nell’accondiscendere indiscriminatamente a ogni loro velleità autodeterminatoria.
Ho già sottolineato la continuità fenomenologica tra la soppressione dell’individuo e la sua mutilazione ideologica, ma non pretendo che lo Stato britannico s’interessi a questioni filosofiche: sono però sicuro che ai termini economici saranno ben piú attenti. I Charlie, gli Alfie e gli Isaiah vengono soppressi perché stimati improduttivi e costosi, e dunque una voce di spesa a fondo perduto nel bilancio pubblico; le Keira invece vengono assecondate nel loro disturbo e gradualmente portate all’autodistruzione perché tale processo (profilassi, interventi chirurgici, mantenimento) garantisce un forte e costante gettito di spesa pubblica e privata, laddove il soggetto non sarà privato di autonomia e dunque continuerà a essere un contribuente.
Ora però accade un imprevisto: una Keira mangia la foglia e vede che questa storia dell’autodeterminazione non sta in piedi, che per definizione non si può chiedere un consenso maturo a un’adolescente e che nella fattispecie una società adulta non avrebbe dovuto assecondare la sua confusione di teenager, denuncia allora l’ospedale (ma sotto accusa è l’intera società)… e vince. Ciò funge da preludio alle inevitabili condanne – verosimilmente multe (sempre al SSN) – e costituirà un importante precedente, specie in regime di common law: e le centinaia di adolescenti che già hanno contattato Keira non la seguiranno sul piede di guerra in tribunale? E cosa faranno nei prossimi anni le migliaia di giovanissime e giovanissimi che attualmente sono sottoposti al “trattamento”? E lo Stato potrà permettersi di rifondare tutti? E chi tirerà avanti la carretta, mentre la folle dogmatica sessantottina travolgerà l’economia interna del Paese per la rincorsa al capriccio e alla confusione?
Questo scenario saluto con gioia, e anzi con speranza, avendo in mente in particolare il caso di un giovane che conosco piuttosto bene: bambino in simbiosi con la madre e in precocissimo complesso edipico, poi lungamente violentato da un vecchio, diventato adulto prima si dichiara omosessuale e poi (anche lí il refrain “altrimenti mi suicido”) esige di essere sottoposto al “trattamento”. Per sua disgrazia, nel consultorio del SSN incappa in due laureatine ben liete di firmargli una diagnosi di “disforia di genere” (che cosa moderna! finalmente anche in Italia!) e lo mandano sotto i ferri di un macellaio (anch’egli laureato). Ora quel povero ragazzo va in giro facendosi chiamare con un nome femminile e toglie la parola a tutti quelli che non lo assecondano nel suo delirio faustiano.
«Ma se è quello che vuole…», obietterà ancora qualcuno: vedete che non si viene fuori facilmente da questa bolla dogmatica dell’autodeterminazione? “S’ei piace ei lice”, scriveva il Tasso nel celebre Coro dell’Atto I dell’Aminta, e parlava proprio di sesso, ma riferendosi all’età dell’Oro, in cui le persone sarebbero state animate un volere mai in contrasto con la natura (anzi quel motto è detto proprio “legge aurea e felice / che natura scolpí”): nella storia umana nota, in cui ciascuno esperisce “l’esser mio frale” (© Leopardi), il patto sociale deve volgersi con particolare cura a tutelare le fragilità maggiori, e non a sfruttarle ovvero (che poi è lo stesso) assecondarle: ché “libito fé licito in sua legge” lo scrisse l’Altissimo Poeta, sí, ma quella non era l’età dell’Oro – era l’Inferno (V,56).
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