In seguito all’aumento esponenziale di nuovi episodi di positività al Covid-19 gli episcopati delle diocesi maggiormente afflitte dalla proliferazione del contagio hanno disposto di prorogare, a fini preventivi, la sospensione della celebrazione pubblica dell’Eucaristia, recependo le disposizioni contenute nel Dpcm n. 52 del 01.03.2020 e nelle successive ordinanze regionali, in conformità all’interpretazione autentica fornita dalla CEI ed in ottemperanza al principio di reciproca collaborazione sancito dall’art. 1 del Concordato (è d’uopo rammentare che le S. Messe continuano ad essere quotidianamente officiate sine populo, in comunione spirituale con la comunità dei fedeli). Alla luce dell’espansione del contagio a livello europeo analoghi provvedimenti sono stati attuati anche in Francia, in particolare nelle diocesi di Vannes e di Beauvais, conformemente ai decreti prefettizi che vietano assembramenti in luoghi chiusi. Purtroppo si deve constatare che, nonostante la perdurante delicatezza dell’emergenza sanitaria, le polemiche intorno alla sofferta decisione adottata con prudenza evangelica ed alto senso di responsabilità dai vescovi delle conferenze episcopali lombarda, veneta ed emiliana allo scopo di tutelare la salute dei fedeli, specialmente quelli che si trovano in condizioni di maggiore fragilità e vulnerabilità, non si sono placate, rivelando nei loro ostinati fomentatori una caparbietà che tradisce una carente attitudine a coltivare ed educare correttamente il sensus Ecclesiæ.
Le disposizioni emanate dall’arcivescovo di Lucca Giulio Arrigoni durante l’epidemia di colera del 1854-1855, al pari delle prescrizioni cui ricorse mons. Ramazzotti nel medesimo frangente attestano come la sollecitudine della Chiesa dinnanzi all’urgenza di prevenire le occasioni di contagio e di diffusione delle malattie infettive avesse condotto autorevoli membri del collegio episcopale, già nel XIX secolo, a ricorrere all’adozione di provvedimenti molto rigorosi, che, al pari di quelli odierni, influivano sulla partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei Sacramenti, proibendo lo svolgimento delle processioni, decretando la sospensione delle Solennità con concorso di popolo e intervenendo in senso restrittivo sull’amministrazione del Viatico agli infermi, fino ad interdirne la ricezione.
I summenzionati precedenti storici, citati a titolo esemplificativo, non costituivano provvedimenti innovativi, men che meno estemporanei, rispetto alla prassi vigente nella Chiesa in simili gravi circostanze.
Durante la pestilenza del 1656, che divampando dalla Sardegna flagellò la Repubblica di Genova e l’Italia centro-meridionale, papa Alessandro VII agì con grande tempestività ed inflessibile vigore per arginare la diffusione del contagio a Roma e debellare l’epidemia che sarebbe giunta a mietere, in poco più di un anno, circa 160.000 vittime all’interno dei confini dello Stato pontificio, cagionando oltre un milione di morti in tutta la penisola.
Reinsediata la Congregazione di Sanità, istituita da Urbano VIII durante la pestilenza del 1630, e affidata la sua guida al prefetto della Congregazione della Sacra Consulta, il cardinale Giulio Sacchetti, che sedici anni prima l’allora cardinale Chigi aveva coadiuvato, in qualità di vice-legato di Ferrara, per impedire la propagazione della peste nello Stato della Chiesa, il Pontefice ne ampliò l’organico nominando, quali nuovi membri, il fratello, principe Mario Chigi, il cardinale Giulio Rospigliosi, segretario di Stato e successore di Alessandro VII con il nome di Clemente IX, il giovane ecclesiastico Gregorio Barbarigo (nominato cardinale nel 1660 e canonizzato nel 1960 da San Giovanni XXIII), il futuro cardinale Girolamo Gastaldi, designato anche Commissario Generale per i Lazzaretti e Commissario Generale di Sanità, ed altri autorevoli prelati e funzionari pubblici. La Congregazione, deputata al controllo dello stato di salute della popolazione ed all’organizzazione dell’isolamento degli appestati e della repressione di disordini e abusi, predispose, con la guida ed il pieno sostegno di Alessandro VII, una serie di misure particolarmente severe volte a prevenire l’espandersi incontrollato della pandemia, a cominciare dalla chiusura della maggior parte delle porte della città.
Mentre interi quartieri romani e numerose località venivano poste in isolamento in presenza di casi accertati di peste e, al contempo, si introduceva, a carico di tutti i cittadini, l’obbligo di denuncia dei decessi e di ogni sospetto di contagio, la Congregazione di Sanità predispose un sistema di lazzaretti basato sulla rigida separazione dei ricoverati in luoghi della città distinti, destinati rispettivamente al ricovero dei malati, all’osservazione dei casi sospetti e alla convalescenza dei sopravvissuti. L’obbiettivo era quello di procedere celermente all’isolamento e al trasferimento degli infetti, con l’applicazione coatta della quarantena a tutte le persone con le quali fossero venuti a contatto.
Tutti questi utili provvedimenti avevano per iscopo il fermo principio di Alessandro VII, onde vincere l’infezione, cioè la separazione de’ contaminati dai sani e risanare con buona cura gl’infetti.
Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. LII, 1841
I controlli sul territorio, oltre a riguardare la quotidiana ricerca ed identificazione degli ammalati, accertati e potenziali, nei diversi rioni, si estesero anche alle abitazioni private, sigillate e “disinfettate” se abitate da appestati, alle merci ed agli oggetti entrati in possesso o nelle disponibilità dei contagiati. In un’ottica di prevenzione generale negativa furono inasprite le sanzioni comminate per la violazione delle disposizioni, secondo una concezione della pena incentrata sulla funzione della deterrenza.
La Congregazione di Sanità, su mandato del Pontefice, intervenne anche a regolamentare la vita religiosa della città introducendo notevoli limitazioni. Fu sospesa l’adorazione eucaristica comunitaria nel contesto della celebrazione delle Quarantore e vennero vietate le processioni e le prediche di piazza.
Feste e cerimonie furono officiate a porte chiuse e le autorità ecclesiastiche arrivarono a privilegiare forme private e personali di devozione e preghiera.
Topi, Forme di controllo in una città “appestata”: Roma 1656-1657; D. Rocciolo, Cum suspicione morbi contagiosi obierunt, pp. 119-120.
Inoltre, dato che, nonostante i divieti, i fedeli romani continuavano ad affluire presso la chiesa di Santa Maria in Portico, ove si conservava l’icona della Beata Vergine del Portico, considerata protettrice della città dalle pestilenze, la Congregazione, per impedire che l’affollamento potesse rivelarsi occasione propizia per l’ulteriore diffusione del male, dispose la chiusura della chiesa e della via sulla quale essa si affacciava.
Secondo il resoconto storico del Moroni esposto nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica:
Né furono sospese solo le comunanze geniali, civili e letterarie ma anche le sacre, come le cappelle pontificie, le processioni, le pie adunanze, le Solennità della Chiesa, per impedire le numerose riunioni in cui è facile lo sviluppo del contagio in tempi epidemici.
Alessandro VII, dopo aver sospeso il foro e le congregazioni e ridotto le visite diplomatiche e le adunanze del concistoro, dispose che venissero posti in quarantena i membri della Curia i cui domestici e famigli fossero risultati contagiati (misura che venne applicata anche al Rospigliosi) e
promulgò amplissimo giubileo universale, senza imporre processioni e visite di poche determinate basiliche per non accumunarvi gente; ordinò a tutte le chiese collegiali e conventuali analoghe orazioni, e vietò il concorso dei fedeli per l’ottavario de’ defunti alla chiesa di s. Gregorio, supplendo all’acquisto di quella indulgenza con private opere. In suffragio poi degli estinti fece celebrare infinite messe, ed in sulle due ore di notte o meglio ad un’ora ordinò che col suono delle campane maggiori si recitasse pei morti di peste, con indulgenza plenaria in forma di giubileo, certe orazioni e il De profundis, dovendosi ricevere la ss. Eucarestia; grazia che fu comunicata a diverse città dello stato ecclesiastico.
Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. LII, 1841
Da parte sua il Pontefice
si fece vedere per Roma recandosi a benedire i convalescenti. […] Non minore fu la sollecitudine di Alessandro VII per la cura spirituale degli infetti, per i quali assai si prestarono i regolari: il Papa volle che fossero scelti i robusti ma molti ne perirono
e quando nell’agosto del 1657, dopo una recrudescenza del morbo nei mesi precedenti, l’epidemia poté considerarsi definitivamente debellata, papa Alessandro declinò la proposta, deliberata dal “senato e popolo romano”, di erigere una statua in suo onore quale salvatore della città, asserendo di «non volere altro simulacro che quello il quale i romani gli conservassero ne’ loro cuori». Adempiendo ad un precedente voto volle, invece, riedificare ed ampliare la piccola chiesa di Santa Maria in Portico, affinché la miracolosa icona mariana fosse accolta in un tempio degno di Colei che aveva interceduto per liberare Roma dalla pestilenza.
Grazie alla durezza ed alla severità dei provvedimenti adottati la Congregazione di Sanità riuscì a frenare l’avanzata della peste, al punto che Roma contò circa 14.500 vittime a fronte delle 150.000 perdite patite dalla sola città di Napoli e delle oltre 70.000 (su una popolazione di circa 100.000 abitanti) sofferte a Genova. Fu senz’altro un esempio di buon governo e di gestione virtuosa dell’epidemia da parte del Pontefice e degli organi dello Stato in un tempo in cui le conoscenze mediche sull’eziologia, sulla trasmissione e sul trattamento terapeutico delle malattie infettive, al di là di un’attività diagnostica basata sulla mera osservazione empirica del quadro sintomatologico, erano pressoché assenti.
Dopo la grave tragedia che aveva funestato l’inizio del suo pontificato Alessandro VII, munifico mecenate, patrono di artisti, letterati e scienziati nonché appassionato studioso dell’ars ædificandi, si impegnò in un ambizioso progetto di ridefinizione dell’impianto architettonico ed urbanistico dell’Urbe, donando alla Chiesa ed all’umanità, attraverso il genio del suo protetto ed amico Gian Lorenzo Bernini, capolavori immortali quali il colonnato di piazza San Pietro, la Scala Regia del Palazzo Apostolico, il grandioso scrigno barocco che custodisce la Cattedra del Principe degli Apostoli nella Basilica di San Pietro e la rinnovata Basilica di Santa Maria del Popolo.
L’azione energica, risoluta ed efficace del Papa e della Congregazione, fondamentale per scongiurare il dilagare incontrollato ed inarrestabile del contagio, suscitò malumori in alcuni settori delle classi popolari per la fermezza mostrata dal Chigi e dai suoi collaboratori e per l’apparente scarsa considerazione in cui sembravano avere tenuto le manifestazioni di pietà e devozione popolare, sopprimendo processioni, messe e Solennità ed arrivando ad interdire l’accesso ad alcune chiese particolarmente care ai fedeli romani.
Come commentava Moroni,
Non pochi del volgo si querelavano di siffatte misure ma i più esaltarono il Papa, che lungi dal nascondere la realtà del contagio, quasi tolse Roma dalle fauci della morte, principalmente secondato dal fratello e dal nipote, e rivolgendosi di frequente con pubbliche orazioni ad implorare la divina misericordia […]. Prima dello sviluppo del morbo si arrivò ad incolpare Alessandro VII di artifizio politico nel supporre l’esistenza della peste, ostinatamente negata; così veniva corrisposto il benemerito e zelante Pontefice: tanto è ingiusto e ingrato il giudizio della moltitudine, quando abbandonata la ragione si fa trascinare dalla passione, anche a suo danno!
Anche nei tempi attuali non mancano contestatori e critici che, refrattari ad ogni richiamo di unità e solidarietà, paiono prediligere modalità espressive di sterile dissenso, rumorose e non di rado sguaiate, manifestando un’inusitata ed ostile acredine nei confronti di quegli episcopati che, per il bene e la sicurezza del popolo loro affidato, hanno coscienziosamente adottato difficili e dolorose disposizioni volte a contribuire al contenimento del contagio, agendo nel solco tracciato dall’azione decisa e rigorosa intrapresa nei secoli scorsi da Pontefici, Vescovi e Santi (anzi, mitigandone gli aspetti più drastici, dato che attualmente, a differenza dell’esperienza passata, non vengono negati i Sacramenti ai malati né vengono sospese le Solennità o chiuse le chiese).
Ma, come fu nella Roma del XVII secolo, ben più numeroso è il fedele ed orante popolo di Dio che con animo docile e riconoscente si stringe in obbediente comunione attorno ai propri padri e pastori e che, pur nella fatica e nella sofferenza che coinvolge tutta la Chiesa, non esita a manifestare la più profonda e sincera gratitudine per la loro premura e vicinanza.
Il Rito ambrosiano prevede che in tempo di Quaresima ogni venerdì, aliturgico, venga a costituire una feria aneucaristica, con finalità eminentemente pedagogiche: il digiuno eucaristico, infatti, si configura come una manifestazione penitenziale che, per mezzo dell’attesa, rafforza l’ardente desiderio di ricevere il Corpo di Cristo, non rivendicato come pretesa né ridotto a ripetitiva abitudine ma accolto come dono gratuito ed immeritato. Nell’omelia per la prima domenica di Quaresima l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, invitava altresì i fedeli ad agire affinché l’inedita e sofferta situazione vissuta potesse divenire occasione e momento favorevole per la conversione. Se le comunità che stanno affrontando l’attuale momento di prova riuscissero a vivere con fortezza e fiducia il presente frangente, senza indulgere in recriminazioni, come una sorta di prolungato venerdì aliturgico (sebbene il Sacrificio eucaristico continui ad essere celebrato, non in forma pubblica, in ogni parrocchia interessata dalle restrizioni), allora questo anomalo avvio di cammino quaresimale potrebbe davvero divenire occasione propizia e feconda per acquisire consapevolezza più matura di quale grazia incommensurabile sia l’Eucaristia, per prepararsi a vivere la Pasqua di resurrezione in pienezza, con rinnovata speranza nella misericordia del Signore.
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