intervista di Sophie Lebrun
La neve si fa attendere, quest’anno. A malapena imbianca le falesie del Grand Som, che si slancia verso il cielo culminando a 2026 metri. Ai suoi piedi, i numerosi edifici del monastero della Grande Certosa, muri bianchi sovrastati da tetti grigi, si annidano in un angolo della vallata. Malgrado i numerosi cartelli “zona di silenzio” scritti sotto lo schizzo di un monaco, i colpi di martello su barre di ferro risuonano da una parete rocciosa all’altra. «Siamo in un edificio dichiarato monumento storico: ci sono sempre dei lavori…», spiega Dysmas de Lassus, ministro generale dei Certosini, che ci accoglie davanti al grande portale rosso del suo monastero.
Fatto eccezionale, l’uomo dal saio bianco e dalle folte sopracciglia ci accompagna oltre la scritta incisa in nero su una targa in legno: “Il monastero non si visita”. Penetriamo nella Grande Certosa. Una volta dall’altra parte della grave porta di legno dall’impressionante serratura – «Anch’essa dichiarata monumento storico», accenna il priore divertito – dobbiamo fermarci. Davanti a noi un giardino con vialetti di ghiaia contornati da siepi di bosso, che conduce a un immenso edificio di quattro piani. In certe famiglie della regione si raccontano ancora le visite lungo i misteriosi corridoi, abbandonati, quando – nella prima parte del XX secolo – i frati erano in esilio in Italia dopo essere stati cacciati dallo Stato francese. Non avremmo attraversato quei quattro cardini arrugginiti fissi nella pietra squadrata. «La clausura comincia qui», si scusa don Dysmas, tanto piú desolato in quanto una donna non può assolutamente oltrepassarla, laddove per un uomo ci sarebbe stata una chance…
Bisognerà accontentarsi delle parole, eccezionali, di questo religioso normalmente dedito a una vita di solitudine e di silenzio. Seduto nel faldistorio di un salone grazioso, sotto lo sguardo di san Bruno, fondatore del luogo e dell’ordine certosino, Michel de Lassus, che ha scelto come nome di religione quello del Buon Ladrone del Vangelo, rilascia a La Vie una lunga intervista in occasione della pubblicazione del suo libro, Risques et drives de la vie religiose (Cerf).
Perché esce dal suo silenzio?
Non “ho” deciso di parlare, né di scrivere, sugli abusi nella vita religiosa: questa cosa mi si è imposta. Dopo essere diventato priore della Grande Certosa, nel 2014, ho intrattenuto uno scambio epistolare che mi ha condotto a incontrare una donna in difficoltà; sono stato toccato dalla sua testimonianza. Ne ho lette altre, e ancora altre vittime mi hanno sollecitato per dei colloqui. Nella nostra regola si trova specificato che noi non facciamo direzione spirituale: difatti non è quanto ho fatto, però ho potuto essere una persona in ascolto per coloro – principalmente delle religiose o delle ex suore – che non avevano trovato orecchie attente. Davanti alla coerenza tra i racconti di abusi in comunità molto differenti, ho progressivamente preso coscienza che siamo davanti a un problema considerevole.
Siamo dunque di fronte a una situazione storicamente rilevante?
La Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica indica che, nel 2018, il 3,8% degli istituti nel mondo è toccato da una visita apostolica e dunque presenta motivo d’attenzione. Un dato che è al contempo piccolo… e grande; se non bisogna dire che va tutto male, esso resta elevato in misura anomala. Gli abusi spirituali non sono cosa di ieri – sono cosa umana e sono sempre esistiti –, ma non vedo un periodo in tutto simile a quello che viviamo. C’è, in effetti, la scoperta di un aspetto totalitario nei fenomeni coi quali ci troviamo a confrontarci. Si è molto parlato della questione degli abusi sessuali su minori – è una benedizione che si sia usciti dal silenzio, a tal riguardo –, al punto che per questo specifico aspetto penso che possiamo essere fieri della Chiesa in Francia e del modo in cui essa reagisce. Non lo avrei detto, prima del 2019… Il campo delle violenze sessuali su persone adulte in contesti ecclesiali resta meno noto. Quanto a quello degli abusi spirituali, esso è poco compreso e difficile da apprendere.
La mia riflessione ha incontrato quella di altri responsabili religiosi in Francia. Presidente della Conferenza Monastica di Francia, il padre abate dell’abbazia di Maylis, François You ha posto in essere due anni di studî sugli abusi, nel 2016 e nel 2017, essendosi egli stesso trovato a confrontarsi col problema. Quest’ultimo anno, egli ha proposto che l’assemblea regolare dei superiori monastici si tenga alla Grande Certosa perché io potessi assistervi. Non eravamo pronti a ricevere quaranta persone tutte insieme! È stato un momento di confronto importante per una presa di coscienza generalizzata. Mi ricordo delle parole d’introduzione di François You: sono i superiori di comunità che hanno creato le situazioni di abuso, non sempre avendo cattive intenzioni. Forse siamo tutti minacciati da codesto cancro, dunque sarà meglio sapere di che cosa si tratta.
Quali sono i sintomi di codesto “cancro”?
Codesta malattia è resa visibile anzitutto dallo stato di quante e quanti lasciano la vita religiosa a pezzi, distrutti. Ho sentito da parte loro questa terribile frase: «Non so piú chi sono». È totalmente anormale! Ci sono alti e bassi, nella vita religiosa (come in tutte); ma quando si esprime che non si trova piú il senso della vita, l’urgenza della situazione dovrebbe balzare alla vista.
Essendo stato per vent’anni maestro dei novizi, mi è capitato di confrontarmi con un giovane religioso preso da pensieri suicidiarî. La sera stessa l’ho mandato a stare con degli amici perché non restasse solo. Quando – raggelato dalla testimonianza di una donna che ha accompagnato delle suore alla loro uscita da una comunità – tutte, con la sola eccezione di una, avevano avuto l’idea di mettere fine ai loro giorni – ho trasmesso l’informazione a dei responsabili in seno alla Chiesa per i quali ho stima da piú punti di vista… e non c’è stata reazione alcuna… Il livello di anestesia è colossale!
Quali sono le cause di questa malattia generalizzata?
La piú facile da identificare è una struttura piramidale costruita attorno a un superiore. Egli riceve tutte le informazioni e limita, o impedisce, il dialogo profondo tra i membri della comunità. La deviazione si colloca allora al livello del controllo. A questo può aggiungersi l’ingiunzione della trasparenza, un terreno scivoloso che sconfina nel controllo dei pensieri. José Rodríguez Carballo, segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, sottolinea il rischio di un istituto che si considera al di sopra degli altri, insistendo su un ruolo di “salvatore della Chiesa” che avrebbe ricevuto.
Questi elementi possono sussistere in diverse gradazioni, e una gradazione va tenuta a mente; ma quando essi entrano nello spirito delle persone queste non possono piú lottare, a poco a poco esse perdono coscienza di cosa sia la discrezione – nel senso monastico del termine, vale a dire la facoltà di discernere, il potere di fare una scelta libera. Esse non sanno piú che cosa sia un’interiorità realizzata. Alcune si ribellano, davanti a questo; eppure, se una persona all’interno di una comunità deviante può percepire intuitivamente degli elementi, essa non può convincersi da sé. Da solo, uno finisce col dirsi che ha torto, che il problema è lui, che ha capito male; perché non può avere ragione contro tutti. E allora si abdica davanti agli altri, davanti all’autorità.
Nella vita religiosa il rapporto con l’autorità è importante. In che cosa sarebbe un segnale di rischio?
La maniera di esercitare l’autorità è spesso una faccenda di trasmissione. Giovane scout, poi ufficiale di riserva in quanto capo-sezione in montagna durante il mio servizio militare, da parte mia ho ricevuto dei punti di riferimento. È stato osservando dom André, mio priore per vent’anni, che mi sono forgiato nella materia. Noi Certosini abbiamo nove secoli di tradizione – è un’eredità pesante da portare, ma dà una stabilità che garantisce grande sicurezza. Nelle comunità nuove c’è maggiore libertà… ma non è piú facile. Spesso la struttura di controllo viene impostata per paura di perdere il potere, alla nascita dell’istituto. Ora, quando il fondatore o la fondatrice la pone in essere – non necessariamente con malafede – la seconda generazione la eredita: o la rimette in discussione, o la mantiene identica a sé stessa, reiterando gli errori del passato.
È difficile mettere in discussione la propria eredità…
Questa difficoltà si annida nel passaggio da un’avventura quasi famigliare, delle origini, a una struttura piú grande. Io vengo da un contesto marittimo e mi viene un’immagine che esprime bene questa realtà: fare della vela e comandare una portaerei non sono cose che si fanno alla stessa maniera. In un piccolo gruppo, si seguono le idee del fondatore e tutto si discute. Quando il gruppo cresce, non si può continuare. Diventano indispensabili capitoli tra membri e formazioni adatte per tutti; vengono espressi i pareri divergenti e il movimento di tutti diventa piú lento. Ciò permette all’autorità di restare sufficientemente decentralizzata, e lo spirito dell’istituto non è perduto. L’agilità degli inizî lascia il posto a un appesantimento delle strutture che in sé non è cosa cattiva: una portaerei pesa piú di una barca a vela, non ci si può far nulla! Di sicuro non basta piú che il fondatore o i suoi successori schiocchino le dita perché tutta la carovana si muova… ma è piú sano. Ogni potere deve invocare un contro-potere; l’espressione di contrappesi e di resistenze fa parte degli elementi di equilibrio.
Nella storia della vita religiosa, i fondatori hanno sempre un posto importante?
Jean-Marie Gueullette mi diceva che, per i domenicani, san Domenico è l’iniziatore. Non minimizzava la sua importanza, ma non lo presentava come una figura immensa. Il fenomeno del sovradimensionamento del fondatore è, ritengo, un fatto moderno. Ora, quando si tende al culto della personalità, lo Spirito Santo fa tanta fatica a passare…
Come affrontare il tema dell’obbedienza?
C’è un problema, per imparare l’obbedienza nella Chiesa. Storicamente, sull’argomento si è passati da un estremo all’altro. Con il concilio Vaticano II, è stata rimessa in discussione una concezione troppo rigida dell’obbedienza; siamo tutti d’accordo nel dire che il cambiamento era necessario. E tuttavia… il timore di un eccesso di regole è tracimato in un’assenza di regole e, conseguentemente, ciò ha spesso comportato che la persona con maggiore influenza si imponga. Questo, coniugato con un desiderio di vita nello Spirito Santo, ha potuto generare la delega a una persona umana di un’autorità che essa non avrebbe dovuto avere.
Negli istituti religiosi antichi, si sa che il voto di obbedienza è sempre fatto in un quadro: un benedettino promette di obbedire al suo abate… nella misura in cui costui si esprime all’interno della Regola. Obbedire è un agire: nessuno può imporre un pensiero per obbedienza. Questo sembra semplice, ma oggi tocchiamo con mano quante derive verso l’abuso hanno avuto luogo in ragione dell’oblio di tali evidenze. Il religioso che obbedisce conserva sempre un’intelligenza e una responsabilità. Nessuna ingiunzione all’unità – cosa molto colpevolizzante! – deve far scomparire il discernimento personale. Dicevo spesso ai novizi che non si obbedisce che se lo si vuole. È una cosa decisamente flagrante, nel nostro ordine, perché viviamo in solitudine: nessuno sorveglia chi fa cosa nella sua cella – e nessuno deve farlo. Nella vita religiosa, promettiamo obbedienza a Dio attraverso un’autorità umana – un priore, un maestro dei novizi. Questo “attraverso” è fondamentale.
Quali sono i rimedî alle derive nella vita religiosa?
Penso che le derive settarie intervengano quando non si cerca piú di formare delle persone ma si corre dietro a un modo di funzionamento unitario, liscio. Ora, il cuore della vita religiosa sta nell’aiutare i suoi membri a stare nel profondo di Dio, prima di essere figli della comunità. Essi devono allora sentire questa libertà nella comunità, anche se non sono indipendenti: libertà di restare esprimendo dei disaccordi, libertà di partire senza vedersi predire ogni sorta di catastrofi, se non si è ancora impegnati.
Il primo passo della guarigione è comprendere la malattia con la quale abbiamo a che fare. Tecnico per temperamento, penso che mostrare i meccanismi apra la porta a una presa di coscienza di quanto non è “normale”. Poi, bisogna voler cambiare. Gli elementi di una deriva settaria assomigliano a una ragnatela, con dei punti di sostegno incrociati: toglietene uno e il resto viene meno. Per esempio, per cambiare una struttura piramidale nefasta basta volerla cambiare, anche se le conseguenze di piccole trasformazioni in modi d’azione sedimentati, in una comunità e nelle persone, fanno paura. Può volerci del tempo. Ce ne vuole molto per acclimatarsi all’idea di un prete aggressore. Ce ne vuole anche per accettare l’idea che una comunità, anche riconosciuta e blasonata, possa ospitare abusi al suo interno.
Voler ascoltare le vittime è già una breccia nel sistema abusivo. Nelle ultime comunicazioni di Papa Francesco sugli abusi – la Lettera al Popolo di Dio, la lettera apostolica Vos estis lux mundi – ho sentito un vero appello a che la parola si liberi. Un appello a che, davanti a questa parola liberata, ci sentiamo tutti parte in causa. Anche per questo il mio libro si inscrive in un reale servizio ecclesiale.
Di fronte alle rivelazioni di abuso concernenti Jean Vanier, come fare fronte a un senso di scoramento?
Prima che il mio libro prendesse forma, avevo consegnato le mie riflessioni in un testo che ha costituito la mia prima tappa di scrittura sulle derive nella vita religiosa. Esso è circolato nelle comunità cristiane e in ambienti religiosi. Un giorno ho ricevuto la lettera di una provinciale di un ordine antico che mi diceva di tutto il bene che questo testo – dato in lettura alle suore – aveva fatto. Non era destinato a loro, ma quella superiora pensava che fosse importante interpellare le formatrici della sua provincia, anche se non si trovavano in una situazione di deriva settaria. Io affermo che abbiamo, nella vita religiosa, la capacità interna di rimetterci in questione.
Del resto, vediamo congregazioni duramente toccate che si trasformano: la fraternità di San Giovanni fa un lavoro interessante, ad esempio; rimettere in discussione il fondatore nello spazio di sei anni resta un bel passo in un tempo breve – anche se le vittime hanno dovuto attendere troppo a lungo. Ma guardate le Fraternità di Gerusalemme: appena è uscito il racconto di una vittima del loro fondatore, hanno lanciato un’inchiesta e un appello alla testimonianza. Solo qualche anno fa ciò sarebbe stato impensabile.
Il lavoro di scrittura ha avuto degli effetti sulla sua vita religiosa personale?
Riconosco che sí, ha avuto un vero impatto sulla mia vita, da quattro anni a questa parte, soprattutto perché non amo scrivere! E poi perché l’argomento è doloroso. Eppure so cos’è la vita in Certosa e, da quando sono priore, non è piú quella che conduco: sono costantemente immerso in comunicazioni per assicurare il governo dell’ordine.
A che cosa assomiglia la vita di un certosino “normale”?
Se procede bene, assomiglia anzitutto a una bella storia d’amore, come ogni vita religiosa! È la sola cosa che possa giustificare una vita come la nostra, altrimenti la solitudine diventa isolamento. Ho l’abitudine di dire che un certosino dovrebbe essere – e talvolta lo è – l’uomo meno solo al mondo, perché il nostro fine è stare sempre con Dio. Il silenzio e la solitudine non sono che dei mezzi per arrivarci.
Questa vita non assomiglia invece all’immagine che la gente se ne fa. Lotto invano contro l’idea che saremmo privi di gravità, quasi sospesi «tra cielo e terra», come dice Robin Bruce Lockart in uno dei suoi libri. Quando si è in una comunità, si tengono sempre i piedi nel fango! Abbiamo una vita vicinissima a ogni vita normale, con gelosie, momenti di rabbia, contesti di fraternità, anche discussioni… Perché non siamo né eremiti né completamente in silenzio.
Chi arriva alla Certosa vive uno scarto tra il ritmo della società che lascia e la vostra vita?
Lo scarto tra il mondo e la nostra vita è colossale. Conservo in me un ricordo imperituro del mio primo Natale in Certosa, a 21 anni. Vengo da una famiglia numerosa e, la sera di Natale, ero sempre con tante persone. Qui, prima del 26 dicembre non c’è assolutamente niente. È stato uno choc. Quelli che oggi si uniscono a noi non hanno problemi a ritrovarsi senza telefono, senza internet. La vera difficoltà riguarda la fragilità delle psicologie, che incontriamo molto piú che in passato. Impegnarsi “per sempre” non è piú una cosa scontata, nella nostra società. I profili che incontriamo hanno conosciuto situazioni famigliari scoppiate, percorsi poco lineari. La questione di una fedeltà fino alla fine della vita è molto piú complicata da imparare. Abbiamo rinforzato la formazione iniziale perché i postulanti portano in sé un po’ del “bazar” di questo mondo che non sempre li ha ben strutturati. Però alcuni scoprono il cuore della nostra vita.
È una vita bella, perché tutto quello che la abita ha un senso. Quante persone oggi hanno una vita che non ha senso? E poi è un lungo cammino, perché con noi certosini il Signore non ha fretta.
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