La decisione, irreprensibile sul piano canonistico, di numerose diocesi dell’Italia settentrionale di disporre la sospensione temporanea delle Celebrazioni eucaristiche con concorso di popolo nei territori maggiormente afflitti dalla diffusione del Covid-19 è stata sorprendentemente accolta da alcuni fedeli non con spirito di rinnovata e deferente unità intorno a pastori chiamati a compiere scelte gravose e difficili volte a salvaguardare il gregge loro affidato con paterna sollecitudine, bensì con ostinato e talora insolente atteggiamento di disobbediente dissenso e contrapposizione. Alcuni hanno, purtroppo, preferito indugiare in una sterile propensione alla contestazione di sapore tardo-patarino nei confronti della gerarchia ecclesiastica, fomentando contro di essa pulsioni eversive, laddove è dovere di ogni cattolico, specialmente nella grave ora presente, manifestare filiale obbedienza e condivisione verso le disposizioni dell’episcopato, il quale, avendo la responsabilità di guidare la porzione di popolo di Dio affidata ai rispettivi Ordinari, ha piena contezza di quale sia il bene dei fedeli, ben più dei critici indocili che, esprimendo con rara presunzione un’eterodossa concezione superstiziosa dei Sacramenti, rivendicati come oggetto di diritto, pretendono di giustificare l’irresponsabilità e l’immaturità di una fede poco educata e formata con lo svilimento della Celebrazione eucaristica a rito “magico” anti-contagio, discostandosi dall’insegnamento e dal credo professati della Chiesa.
Preme brevemente precisare che le S. Messe continueranno ad essere regolarmente celebrate nelle parrocchie dei territori colpiti dal contagio, senza la convocazione e la partecipazione dell’assemblea, ed il Sacrificio eucaristico continuerà ad essere offerto per tutta la Chiesa, con la possibilità dei fedeli di unirsi spiritualmente nell’orazione e di sostare in adorazione dinnanzi al tabernacolo nelle chiese, che continueranno a rimanere aperte.
In un prezioso articolo pubblicato su Una Penna Spuntata è stata ricordata la figura del venerabile mons. Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia, avviato alla gloria degli altari, che durante l’epidemia di colera del 1854, sulle orme del suo predecessore mons. Tosi (amico e maestro di Alessandro Manzoni), si prodigò per impedire la diffusione del contagio con l’adozione di rigorosi provvedimenti che giunsero fino alla proibizione della somministrazione del Viatico a infermi e moribondi.
Nei medesimi giorni dell’agosto 1854, durante i quali l’Italia era flagellata dal colera, nella diocesi di Lucca l’arcivescovo mons. Giulio Arrigoni (1806-1875) adottava prescrizioni similari per proteggere il suo popolo dal dilagare dell’infezione.
Nato a Bergamo, noto e stimato predicatore dell’Ordine dei frati minori, la sua eloquenza e dottrina colpirono a tal punto il granduca di Toscana Leopoldo II da volerlo chiamare a Firenze per predicarvi la Quaresima e da conferirgli, nel 1844, la cattedra di teologia dommatica all’Università di Pisa. Nel 1849 fu nominato arcivescovo di Lucca da Pio IX, divenendo, dopo un’iniziale incomprensione, uno dei membri dell’episcopato italiano da lui più stimati per la fedeltà e lo zelo mostrato nella causa temporalista, tanto da essere inserito nella lista dei 36 vescovi di rito latino informati nel 1866 dalla Congregazione del Concilio in merito all’intenzione del Pontefice di convocare il Concilio Vaticano I , interpellati affinché proponessero argomenti di dottrina e di disciplina che a loro giudizio avrebbero dovuto essere trattati dall’assise conciliare, a cui l’Arrigoni partecipò venendo nominato membro della deputazione della disciplina.
In una notificazione del 16 agosto 1854, dopo avere esortato i fedeli alla penitenza ed all’invocazione del divino perdono, mons. Arrigoni chiosava che «questo non ci dispensa dal porre attenzione a quelle cautele che l’esperienza ed i sapienti nell’arte salutare dicono opportune a preservare questa nostra povera mortalità», rammentando che «tutta la medicina viene da Dio» (Sir 38).
Egli pertanto disponeva:
Fino a quando sia cessato in questa Nostra Diocesi il morbo asiatico [colera, NdA] accordiamo a tutti l’usare delle carni ne’ giorni vietati; e in ciascun giorno, nel quale si farà uso di questa dispensa, è Nostro desiderio che si reciti un Atto di Contrizione detestando le colpe che hanno chiamato sopra di noi lo sdegno di Dio.
Proibiva poi, «in qualche luogo siano indizi di Cholera», lo svolgimento di processioni e la celebrazione delle «Solennità religiose che attirano calca di popolo, essendo omai una verità istorica che in circostanza di contagi queste raunanze riescono alla salute pubbliche nocevolissime» sentenziando che «Vuolsi pregare ma non tentare Iddio».
Raccomandava inoltre ai parroci il puntuale e rigoroso rispetto delle norme igieniche nelle chiese, nelle cappelle e nei santuari, avendo
particolare cura della pulizia e mondezza delle medesime, avvertendo di tenerle ventilate […].
La premura manifestata nell’adozione di misure anche molto rigide, come il divieto di celebrare pubblicamente le Solennità, si univa al pressante invito alla preghiera, al pentimento ed alla conversione, accompagnato dall’incrollabile fede nella misericordia del Signore:
E qui permettete, miei Dilettissimi, che torniamo un’altra volta a rammentarvi che sempre ciò che fa miseri i popoli è il peccato; che l’Eterno o atterri o susciti, o affanni o consoli, è sempre per il nostro migliore; che egli non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva; […] umiliatevi sotto l’onnipotente mano di Dio; riordinate la vostra vita, e il flagello che ora n’è causa di tanti timori, diventerà per noi una misericordia e quando che sia potremo rallegrarci per questi giorni di afflizione e di tristezza.
Le medesime diposizioni furono riproposte in un nuovo decreto del 17 luglio 1855 dinnanzi alla recrudescenza del morbo.
Per tutta la durata dell’epidemia il vescovo Arrigoni non si risparmiò nell’assistenza ai malati e nella visita agli infermi. La sua instancabile opera pastorale e la sua vicinanza al popolo prostrato dal colera gli valsero la gratitudine imperitura e la venerazione del suo gregge, che si strinse attorno al suo pastore (né si registrarono proteste per la mancata celebrazione pubblica delle Solennità).
Come attestava nello stesso 1854 la cronaca de La Civiltà Cattolica:
Molto zelo e molta apostolica carità verso il suo popolo ha dimostrato in questa luttuosa circostanza M. Giulio Arrigoni Arcivescovo di Lucca, che fattosi di persona a visitare e assistere gl’infermi di colera non meno negli ospedali che nelle loro povere abitazioni, distribuiva loro larghe elemosine e ogni maniera di conforto ed aiuti spirituali.
Questi brevi cenni di storia locale diocesana attestano come la prudenza e la cura, le quali, espressioni di carità evangelica, hanno informato l’azione degli episcopati del Nord Italia a fronte dell’attuale situazione di emergenza siano le medesime che ispirarono le modalità di condotta cui si attennero, a metà del XIX secolo, non pochi vescovi che si trovavano a vivere e operare in stati diversi (mons. Ramazzotti nel Regno Lombardo-Veneto e mons. Arrigoni nel Granducato di Toscana), dovendo fronteggiare gravi pericoli per la salute pubblica con ben più limitate risorse e ridotte conoscenze mediche. La circostanza che, durante il pontificato di Pio IX, disposizioni sostanzialmente analoghe venissero adottate e rinnovate, dinnanzi alla recrudescenza dei contagi, dagli Ordinari di diverse diocesi italiane dimostra come esse fossero sostanzialmente approvate dalla Sede Apostolica, non certo tacciabile di tentazioni lassiste o di cedimenti alla modernità.
Rispetto a certe reazioni scomposte e finanche volgari, mentre nell’ora della prova si trova conforto nella fiduciosa orazione innalzata al Signore della vita e nella delicata e premurosa vicinanza di colui che è chiamato ad essere, nelle rispettive diocesi, Vescovo e padre (da ambrosiano, rinvio alla splendida preghiera di benedizione formulata da Mons. Mario Delpini e pubblicata sul sito della Arcidiocesi di Milano) sovviene alla memoria il giudizio espresso da Manzoni dinnanzi ad analoghi isterismi:
Il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.
Storia della Colonna Infame
Di’ cosa ne pensi