di Guilhem Cocquerelle1Dal sito di «Limite», 19 dicembre 2019 (traduzione di Emiliano Fumaneri).
Tanto incensata quanto ridicolizzata dalla critica, la nuova pellicola di Terrence Malick rappresenta un capolavoro artistico sul combattimento spirituale e morale di un obiettore di coscienza austriaco nel periodo del nazismo. Un’autentica ode al primato della coscienza.
Nel febbraio 2017, Martin Scorsese usciva con un film tormentato e sconcertante, Silence, che narrava il combattimento spirituale di un missionario gesuita nel cuore delle persecuzioni contro i cristiani in Giappone. Questi faceva infine la scelta di un’etica consequenzialista: rinnegare pubblicamente la propria fede piuttosto che subire un martirio sinonimo di torture per i suoi compagni cristiani. Il suo compatriota Terrence Malick si è concesso un diritto di risposta col suo nuovo film La vita nascosta, una delle sue più belle realizzazioni, sulla storia vera di Franz Jägerstätter.
La vita buona e il paradiso perduto
Come un leitmotiv nella sua opera, tra l’America dei buoni selvaggi del Nuovo mondo e le isole melanesiane disseminate di capanne ne La sottile linea rossa, Malick filma con cura meticolosa il tema del paradiso perduto. Una coppia di contadini, Franz e Franziska Jägerstâtter, così come i loro tre incantevoli figlioli, conducono una esistenza piena di lavori, estenuanti ma edificanti, nel villaggio di Sankt Radegund, rannicchiato in una vallata montana della regione di Salisburgo. Come una incarnazione dell’ideale jeffersoniano della società dei cittadini-contadini, la vita di questi agricoltori malati d’amore e tenerezza è ritmata dalle stagioni, dall’angelus e dalla feste popolari. Per Malick, la vira buona è risolutamente dalla parte della gente che conduce, come descrive la citazione finale di George Eliot, una «esistenza nascosta».
Purtroppo la follia nazista e la guerra andranno a risvegliare le passioni violente e più camuffate in seno al villaggio. La gioia semplice della vita comunitaria si tramuta allora in un olismo oppressivo e persecutorio. In quel campo della morale chiusa, Franz rifiuta di prestare giuramento a Hitler, contro la quasi totalità del suo borgo e l’infernale macchina amministrativa del Terzo Reich. Come una lunga litania di vita e di dolore, la passione subita da ciascuno dei membri del focolare domestico si eleva progressivamente verso il Cielo, seguendo le movenze di Händel nel suo oratorio Israele in Egitto.
Il primato della coscienza
La scelta di Franz Jägerstätter da parte di Terrence Malick non è anodina: la sua vita eroica e umile può iscriversi in una linea di grandi martiri per la fedeltà a quanto credevano giusto e buono, ad immagine di Tommaso Moro in Inghilterra o soprattutto di Pietro Kibe Kasui nel Giappone del XVI secolo. Essendo stato quest’ultimo beatificato lo stesso anno di Jägerstätter, nel 2007, come non vedere in questo una reazione al Silence di Scorese? Si sa che Malick aveva scritto una lettera al cineasta italo-americano all’uscita di Silence dove gli poneva la domanda: «Cos’è che Dio si attende da noi?». Questo copione assume pure il suo significato alla luce dell’influsso preponderante, sull’opera di Malik, del trascendentalismo di Emerson e degli scritti di Thoreau: «Perché allora ogni uomo ha una coscienza? Penso che dovremmo essere prima uomini, e poi cittadini», così professa Thoreau ne La Disobbedienza civile (1849).
Terrence Malick approfondisce così quella visione morale del mondo che cercava di esprimere negli ultimi tre film. Non una posa moralizzatrice, ma un’etica di vita, al servizio di una esistenza degna e libera, quella di un uomo innamorato di sua moglie, radicato, e profondamente disgustato dagli orrori del nazismo. Bisogna piegare il capo, accettare una lealtà disonorevole ma risparmiare alla propria famiglia un avvenire da vedova e da orfani? Uno ad uno, Franz rifiuta tutti i compromessi, i piccoli accomodamenti, i calcoli politici di un Creonte, la timorosa prudenza del vescovo, le manipolazioni della verità. Se la coscienza viene tanto sacralizzata è perché per Franz, come per «Terry», farla tacere vuol dire attentare all’essere stesso. Occorre anche essere disposti ad accogliere, per il prossimo come per il concittadino, quello sguardo sul mondo alla luce della verità (la guerra tedesca è ingiusta), proprio come guardare un film di Malick suppone una reale disposizione all’esperienza spirituale. La verità allora si fa eclatante, e Franziska benedice suo marito nel suo cammino di integrità morale, dandogli la forza di andare fino in fondo al suo martirio.
Una narrazione ritrovata
La trama del film segue la corrispondenza epistolare degli sposi durante la prigionia dell’agricoltore. Terrence Malick ritrova così una narrativa, accessibile e vibrante, pur conservando la sua arte di dialoghi sobri e profetici, al servizio dell’analisi metodica e particolarmente approfondita del combattimento spirituale. Anche la scelta discutibile di far parlare i giusti in inglese e i persecutori in un tedesco aggressivo e non sottotitolato, posizione strana per questo traduttore di Wittegenstein, è riscattata dalle dichiarazione d’amore in tedesco tra Franz e Franziska alla fine del film, a ricordare che questa lingua germanica è anche quella della tenerezza. In Un jardin parmi les flammes [Un giardino tra le fiamme] Philippe Fraisse confessava: «Nel cinema di Terrence Malick c’è qualcosa di più del cinema». Uscendo dalla sala a bocca aperta e sottosopra per il piccolo miracolo che si era operato sullo schermo, in una Parigi deserta, mi sembrava evidente che la prossima opera del regista, peraltro annunciata, non potesse che riguardare Gesù di Nazaret. Come se l’involuzione produttiva di Malick, incompresa alla critica, durane questi ultimi anni non avesse come fine che un simile compimento. Come se, sempre in risposta a Scorsese e al suo famoso film L’ultima tentazione di Cristo, Malick volesse spingere sino all’estremo la propria etica deontologica. Come se, in fin dei conti, Malick fuggisse dal cinema per realizzarsi in esso.
Di’ cosa ne pensi