di Olivier Rey1Da Le Figaro del 9 gennaio 2020 (traduzione di Emiliano Fumaneri). Olivier Rey è matematico e professore di filosofia all’Università Parigi 1 (Pantheon-Sorbona).
DIBATTITO – Negli Stati Uniti lo scetticismo climatico è un credo per i repubblicani anche se l’urgenza climatica, incontestabile, è una verifica della giustezza del pensiero conservatore.
In un articolo del 1955 intitolato «Possiamo sopravvivere alla tecnologia?», John von Neumann, una delle maggiori figure della scienza nel XX secolo, stimava che la quantità di diossido di carbonio scaricata dall’industria avesse già, a quell’epoca, prodotto un riscaldamento globale di mezzo grado: come si vede, la questione climatica non è certo una novità!
Nel 1979, un rapporto commissionato dall’amministrazione americana al National Research Council mostrava che c’erano buone ragioni per inquietarsi ed è nel corso del decennio successivo che fu creato, a livello internazionale, l’IPCC.
Quando il tema del cambiamento climatico indotto dalle attività umane assunse importanza nella sfera pubblica non era connotato politicamente: nel 1997, un’indagine condotta negli Stati Uniti mostrava come non ci fosse alcuna differenza a tale riguardo tra democratici e repubblicani – da ambo le parti, circa la metà degli elettori ammetteva che ci fosse in corso un riscaldamento.
Tuttavia le cose cambieranno rapidamente: nel 2008, una nuova indagine evidenziava che la proporzione dei democratici interessati alla questione era passata dal 52 al 76%, quella dei repubblicani dal 48 al 42%. In circa un decennio, uno scarto insignificante del 4% tra i due fronti era diventato una frattura del 34% e l’opinione sulla questione climatica risultava fortemente correlata a quelle sull’aborto, sul matrimonio omosessuale e al controllo delle armi.
Come spiegare un simile dato di fatto?
È tipico di una ideologia passare la realtà al setaccio in maniera da lasciar filtrare solo quanto in essa gli è possibile assimilare senza danni. Per quanto riguarda il riscaldamento climatico, il filtro liberale (nel senso americano del termine) non oppone alcuna resistenza: i «progressisti», infatti, si trovano a loro agio con le grandi cause mondiali, amano pensare in maniera «planetaria» e assumere delle altezzose pose moralizzatrici fustigando gli egoismi nazionali – tutte cose alle quali, grazie alla questione climatica, hanno modo di lasciarsi andare senza alcun ritegno. Di conseguenza, dato che la questione climatica rientrava nell’«agenda» democratica un buon numero di repubblicani (incoraggiati in tal senso dalle lobby petrolifere) si sono messi a considerare il riscaldamento alla stregua di una «frottola» sinistrosa. In questo modo ciò che chiamiamo «scetticismo climatico» è diventato, per i repubblicani americani, una sorta di contrassegno identitario, allo stesso titolo di quel che è la promozione di ogni sorta di minoranza per i democratici.
Evidentemente, la recente e insensata campagna di promozione della giovane Greta Thunberg non è tale da sistemare le cose. Visto l’uso che i regimi totalitari hanno saputo fare dei fanciulli per terrorizzare gli adulti c’è qualcosa di profondamente malsano e inquietante nel circumnavigare di questa adolescente paffutella e accusatrice, per non parlare delle tribune nazionali e internazionali che le vengono offerte con compiacenza. Facciamo attenzione, tuttavia, a non confondere la realtà o l’irrealtà dei fatti con la simpatia o l’antipatia suscitate dalla persona che li enuncia.
San Clemente d’Alessandria osservava che anche al diavolo capita di dire delle verità. È per questo che metteva in guardia: «Non bisogna stoltamente condannare a priori le parole a causa di colui che le pronuncia». Il fenomeno Greta non intacca in nulla i lavori dell’IPCC. I modelli del clima non sono perfetti. Ma quando la posta in gioco è tanto colossale, ciò che è razionale non è il fatto attendere di disporre di assolute certezze per agire, ma il fatto di agire nel presente in funzione delle migliori informazioni disponibili.
Al giorno d’oggi, il reale è diventato il peggior nemico delle forze cosiddette del progresso, l’avvento del quale ispira giornalmente le favole sulla globalizzazione felice e il «vivere assieme» in pace e armonia. Il solo argomento di cui dispongono, davanti ai fatti che contraddicono esplicitamente il racconto che esse sostituiscono al reale, è quello di accusare chi evoca questi fatti di giocare sulle paure. In una sconcertante simmetria, una certa destra si impelaga, contro tutti gli elementi disponibili, nello «scetticismo climatico» per poi a sua volta accusare chi parla di riscaldamento globale di giocare sulle paure. Atteggiamento tanto più stupido, da parte di persone inquadrabili nel campo dei «conservatori», perché se da una parte i suddetti conservatori dovrebbero essere particolarmente attenti alla stabilità del clima, senza la quale tante cose non verrebbero conservate, dall’altra parte lasciano che il «progressismo» si presenti come rimedio a dei mali che il progressismo stesso contribuisce ad aggravare.
Abbiamo avuto un esempio significativo di questo genere di impostazione il 23 luglio scorso quando, nella stessa giornata, l’Assemblea nazionale francese ha votato il CETA, trattato di libero scambio tra l’Unione europea e il Canada, e ha ricevuto in pompa magna Greta Thunberg. Da un lato, un trattato che si prefigge, sopprimendo i dazi doganali, di intensificare il commercio internazionale e, in particolare, di far attraversare l’oceano a generi alimentari che potrebbero perfettamente essere prodotti su ciascuna delle due sponde; dall’altro lato, lo sfoggio di un «impegno per il clima» perfettamente contraddittorio. La giovane Greta, interrogata sul tema, non ha voluto offendere il potente ospite: ha rifiutato di pronunciarsi sull’opportunità o meno del CETA. Un po’ come se un difensore della fauna e della flora acquatiche rifiutasse di pronunciarsi sullo sversamento di olio di scarico nei fiumi.
Degli sbagli drammatici
La prudenza, il silenzio, quando non la ripugnanza da parte di movimenti posizionati «a destra» dello scenario politico nei riguardi delle questioni ecologiche si possono spiegare in ogni genere di maniera. Costituiscono nondimeno, al giorno d’oggi, degli sbagli drammatici. Da una parte perché la crisi ecologica – di cui il riscaldamento climatico è soltanto un fattore tra gli altri – è un dato essenziale del nostro tempo, la cui importanza non farà che accrescersi nel corso del secolo. Dall’altra parte perché i conservatori doc sarebbero più coerenti dei cosiddetti progressisti nell’investire in questo terreno2Analoghi pensieri sulle «affinità elettive» tra conservatorismo e ecologismo sono stati espressi anche dal più autorevole esponente del pensiero conservatore: il filosofo britannico Roger Scruton, recentemente scomparso, autore di un libro dal titolo Green Philosophy. A riprova della rigidità del filtro ideologico – e dell’abbaglio, il più classico «errore di posizione» – di cui parla Rey, questo lato «verde» del pensiero scrutoniano è stato totalmente silenziato da parte della stampa di orientamento conservatore. NdT..
Il geografo, antropologo e storico americano Jared Diamond ha pubblicato, nel 2005, un libro intitolato Collasso, tradotto in francese col titolo di Effondrement [Sprofondamento, tracollo]. In questo libro, sottotitolato Come le società scelgono di sparire o di sopravvivere, Diamond ha portato avanti uno studio comparato delle società che avendo dovuto fronteggiare, nel passato, un «degrado ambientale», sono sprofondate o hanno saputo, al contrario, trovare i mezzi per superare le loro difficoltà.
Per poter arrestare il tracollo, i membri della società devono riconoscere i loro interessi comuni e prendere le misure drastiche imposte dalla tutela di quegli interessi. Ciò è possibile, scrive Diamond, solo se vengono soddisfatte una serie di condizioni: che le persone interessate formino un gruppo omogeneo; che abbiano imparato a fidarsi e a comunicare tra di loro; che ritengano di avere un avvenire comune e trasmettano le risorse esistenti alle giovani generazioni; che abbiano la capacità, o il permesso, di organizzarsi e di sorvegliarsi reciprocamente; che i confini delle risorse e l’insieme di quelli che ne fanno uso siano ben definiti. Il libro di Diamond ha avuto una grande tiratura, è stato abbondantemente commentato ma, come ci si poteva attendere, questo passaggio non ha superato il filtro della critica. Quelli che si dicono ecologisti hanno accolto appieno la minaccia del tracollo, ma si sono accuratamente guardati dal considerare le condizioni che, secondo Diamond, sono necessarie per essere in grado di scongiurarla.
Il «no borderismo»
La verità è che il globalismo non può essere la soluzione alla crisi che esso stesso genera. E non solo, dato che il «no borderismo» costituisce l’esatto opposto della via da seguire. Indubbiamente, certi problemi sono globali. Ma è la perdita di misura a livello locale che li ha generati e solo la riscoperta di questa misura permetterà di affrontarli. Gli sforzi da compiere in tal senso sono immensi. Tanto immensi che sorge la tentazione di rimandare a più tardi il problema ecologico, una volta ripristinate condizioni tali da consentire lo sviluppo di una vera ecologia. Questa tentazione va respinta. Innanzitutto perché c’è urgenza, e poi perché non conviene, per perseguire un fine, mettere tra parentesi una delle questioni maggiori per cui esso merita di essere perseguito. Al contrario. Invece di abbandonare le posizioni ecologiche al progressismo, i conservatori dovrebbero smascherare l’impostura progressista su questo tema, invece di mantenere a distanza la questione ecologica dovrebbero aderirvi completamente.
Ho evocato inizialmente il divario considerevole che, tra il 1997 e il 2008, si è scavato negli Stati Uniti tra repubblicani e democratici sul tema del riscaldamento climatico. Una parola, per terminare, su quanto accade oggi. Un’indagine condotta nel 2019 rivela che tra le persone di età compresa dai 39 anni in su la proporzione di repubblicani che considerano il cambiamento climatico come una minaccia seria si attesta al 51% contro il 95% dei democratici: il divario, come si vede, è ancora aumentato nel corso del decennio appena trascorso. Tra le persone di età compresa tra i 18 e i 38 anni, in compenso, la situazione è completamente differente: il 77% dei giovani repubblicani considera il cambiamento globale come una minaccia seria, contro il 76% tra i democratici. Cifre come queste dovrebbero far pensare. Ostinandosi a disprezzare le sfide ecologiche e climatiche, i conservatori «che non se la bevono», che giocano a fare i superiori in contrapposizione alla «propaganda riscaldazionista», mostrano fino a qual punto faccia loro difetto quella lucidità di cui tanto menano vanto. Non essendo all’altezza del compito che spetta loro, cadranno nel ridicolo.
Note
↑1 | Da Le Figaro del 9 gennaio 2020 (traduzione di Emiliano Fumaneri). Olivier Rey è matematico e professore di filosofia all’Università Parigi 1 (Pantheon-Sorbona). |
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↑2 | Analoghi pensieri sulle «affinità elettive» tra conservatorismo e ecologismo sono stati espressi anche dal più autorevole esponente del pensiero conservatore: il filosofo britannico Roger Scruton, recentemente scomparso, autore di un libro dal titolo Green Philosophy. A riprova della rigidità del filtro ideologico – e dell’abbaglio, il più classico «errore di posizione» – di cui parla Rey, questo lato «verde» del pensiero scrutoniano è stato totalmente silenziato da parte della stampa di orientamento conservatore. NdT. |
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