Stranamente, all’articolo del 29 dicembre scorso, su Repubblica, con il quale Eugenio Scalfari attribuiva a Papa Francesco nientemeno che varie e vecchie eresie di stampo ariano e gnostico, non ci sono state risposte di rilievo, con le lodevoli eccezioni di Padre Livio dai microfoni di Radio Maria e di Renato Farina su Libero. Vorremmo perciò provare a dare noi qui, entrando nel merito della questione, un modesto contributo nella speranza che sia di aiuto ai cristiani che, nel caso, siano rimasti un po’ disorientati da alcune affermazioni scalfariane e magari anche a Scalfari stesso, che mostra d’ignorare l’essenza e i fondamenti del cristianesimo.
Il brano centrale dell’articolo di Scalfari (qui e qui) è questo:
Desideravo conoscere il parere (di Francesco) su Gesù Cristo: qual era la posizione del Papa rispetto a quello che per i cristiani è il figlio di Dio. La risposta del Papa fu la seguente:
«Quando Dio, che è unico per tutte le genti di tutto il mondo, ad un certo punto decide di incarnarsi con l’obiettivo di aiutare l’umanità a credere nell’aldilà e a comportarsi adeguatamente, succede che nel momento in cui si incarna diventa un uomo a tutti gli effetti, un uomo in carne e ossa, un uomo perfino nel pensare e nell’agire. Cioè è un uomo vero e totale e lo dimostra nell’ultima settimana trascorsa a Gerusalemme, nell’ultima cena, nell’orto del Getsemani dove prega Dio di esentarlo dall’esser crocifisso ma Dio non gli risponde. Anche sulla croce è un uomo, il quale si rivolge a quello che chiama il Padre e quasi lo rimprovera dicendogli: “Padre, Padre mi hai abbandonato”. Era un uomo fino a quando fu messo nel sepolcro dalle donne che ne ricomposero il cadavere. Quella notte nel sepolcro l’uomo scomparve e da quella grotta uscì in sembianze di uno spirito che incontrò le donne e gli apostoli conservando ancora l’ombra della persona e poi definitivamente scomparve».
La citazione è lunga, ma necessaria.
Naturalmente è chiaro che il Papa non può aver detto questo. Non è la prima volta che succede e già in un altro paio di occasioni il direttore della Sala Stampa della Santa Sede aveva affermato:
Le parole che il dott. Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti […] rappresentano una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato.
E questo potrebbe chiudere la questione.
Qualcuno però, anche qualche cristiano, potrebbe essere rimasto colpito dalle citazioni dei Vangeli, che Scalfari, travisandole, porta a sostegno della sua tesi per cui il Figlio di Dio, incarnandosi, sarebbe diventato soltanto un uomo: la preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39); e il suo grido sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).
L’errore fondamentale di Scalfari sta nel ritenere che Dio «ad un certo punto decide d’incarnarsi con l’obiettivo di aiutare l’umanità a credere nell’aldilà e a comportarsi adeguatamente».
Non è per questo che Dio s’è fatto uomo.
Il Figlio di Dio si è incarnato per riconciliare l’uomo con Dio, per ricreare quella comunione d’amore fra l’umano e il divino che il peccato originale aveva interrotto.
Non diciamo niente di nuovo: c’è già tutto nella Rivelazione:
Cristo è la testa del corpo, cioè della Chiesa; egli è il principio, il primogenito di fra i morti, così da essere il primo in tutte le cose; perché il Padre si compiacque di far abitare in lui tutta la pienezza, e per lui, che ha ristabilito la pace per virtù del sangue della sua croce, riconciliare con sé tutto ciò che esiste sulla terra e nei cieli.
Col 1,18-20
Dio ci ha fatto conoscere
il mistero della propria volontà… che doveva compiersi nella pienezza dei tempi: riunire utte le cose, quelle dei cieli e quelle della terra sottoun unico Capo, Cristo.
Ef 1,9-10
E c’è già tutto nel Catechismo della Chiesa Cattolica ai paragrafi 456-478.
Il metodo scelto da Dio, l’Incarnazione del Verbo, perché gli uomini diventassero “partecipi della natura divina” (2Pt 1,4), ha poi implicato che il Verbo Incarnato, Gesù Cristo, condividesse tutti gli aspetti della vita umana (tutti, tranne naturalmente il peccato) per “ricapitolarli” e riconquistarli, innalzandoli ad una “vita nuova”. Ed è questa la ragione che l’ha portato a fare esperienza “anche” del timore, dell’angoscia, dell’«attesa del male senza requie, / il peggiore dei mali» (Ungaretti, Mio fiume anche tu), espressi con la sua volontà umana nell’orto del Getsemani e nel grido sulla croce.
Quest’ultimo, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, è particolarmente interessante. Per spiegarlo si è soliti ricordare che Gesù cita qui l’inizio di un salmo, il 21, e che quindi l’amarezza profonda della sua agonia deve essere intesa nel senso dell’intero salmo, che è un salmo di preghiera e di fiducia in Dio. E sta bene.
Se visto però, anzi ascoltato nella prospettiva della volontà di Cristo di condividere solidarmente in tutto e per tutto la condizione umana, c’è in quel grido qualcosa di più: c’è la conclusione e la realizzazione piena di quella solidarietà con noi! Una solidarietà che comincia nel grembo di Maria e continua poi per tutta la sua vita, compiendosi in quel grido, che rivela come egli, abbandonato, flagellato, deriso, condannato ingiustamente, crocifisso, abbia voluto fare esperienza anche del sentimento più doloroso nella vita di un uomo: l’essere abbandonati da Dio! Dopo quel grido c’è soltanto la morte.
Condividere e riscattare la condizione umana: questa è la missione di Gesù Cristo, inscindibilmente vero Dio e vero uomo nell’unità della sua Persona divina. Lo ha espresso in modo originale Julián Carrón in un articolo sul Corriere della Sera del 24 dicembre scorso:
Gesù non ci offre una parola consolatoria, ma accade nella nostra vita. Per farci capire quanto valiamo, il Verbo – Dio, il significato,l’origine e il destino del nostro vivere – si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Niente è più convincente di questo. Il Signore del cielo e della terra assume la nostra umanità. Facendosi carne, e restando presente attraverso la carne, l’umanità reale di persone concrete, può abbracciare ogni situazione umana, entrare in ogni disagio, in ogni ferita, in ogni attesa del cuore.
Da parte mia, per deformazione professionale pedagogico-didattica, vorrei suggerire un’immagine che serva da promemoria: si può paragonare la missione di Cristo all’operazione di rivoltare un calzino (che Dio mi perdoni!). Per realizzare tale operazione bisogna infilare la mano nel calzino, scendere fino in fondo, afferrarne la punta e tirare indietro, rivoltandolo: dal rovescio al diritto. Il Figlio di Dio ha fatto qualcosa di analogo: è sceso giù nel creato fino all’uomo, ne ha assunto la natura, condividendone tutto, e poi… ha tirato indietro: è risorto, coinvolgendo e riconquistando in quella sua “Vita Nuova” tutti gli aspetti della vita umana. «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5): dal rovescio al diritto!
Di tutto ciò nell’articolo di Scalfari non c’è la minima percezione.
Per avere la misura di livelli diversi di profondità esistenziale e di pensiero, facciamo un paragone con quanto sull’argomento dice un Dante Alighieri, tanto per citare un intellettuale “altro”.
In Paradiso mentre sta per rispondere a san Giacomo, che gli ha chiesto di chiarire che cos’è la Speranza e se egli possieda questa virtù, Dante è inaspettatamente anticipato da Beatrice, che si rivolge all’apostolo e afferma:
La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:però li è conceduto che d’Egitto
Pd XXV,52-57
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ’l militar li sia prescritto.
Dante fa qui un’affermazione veramente forte, impegnativa: ritiene di essere il cristiano che nel mondo dei suoi tempi ha più speranza di tutti e di aver meritato per questo da Dio la grazia del suo viaggio ultraterreno e della sua missione di poeta-profeta.
Perché tale primato? Perché questa grazia?
Chiediamo aiuto a un grande dantista:
Un simile primato, a meno che non si voglia attribuire a Dante un impossibile orgoglio, non può spiegarsi sul piano delle qualità o dei meriti del soggetto, ma su quello dell’estensione o della ricchezza dell’oggetto; in altri termini, Dante non può avere “più speranza” degli altri nel senso di essere migliore di loro, ma nel senso che tale speranza si estende a comprendere più oggetti di quanto non facciano, almeno esplicitamente, gli altri cristiani.
Silvio Pasquazi, All’eterno dal tempo
I quali, spesso, ieri e oggi, nonostante il perenne e inalterato insegnamento del Magistero, riducono l’oggetto della loro Speranza «puramente e semplicemente a una salvazione personale, in cui i problemi, gli affetti e le speranze della vita terrena sono tutt’al più uno scialbo ricordo».
La Speranza di Dante è saldamente fondata sulla certezza che
… l’umana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin ch’al Verbo di Dio discender piacqueu’ la natura, che dal suo fattore
Pd VII,28-33
s’era allungata, unì a sé in persona
con l’atto sol del suo etterno amore.
E si estende quindi a molto di più: alla salvazione, sul piano dell’eternità, di tutto quel che di valido, di realmente buono, vero, bello, l’umanità abbia amato e costruito nella vita terrena; cioè si estende all’intera storia umana, i cui valori e conquiste egli ha sintetizzato in una realtà simbolica del tutto eterogenea rispetto alla salvazione individuale: l’Aquila del cielo di Giove, formata dalle luci splendenti di una miriade di beati.
Di fronte al «segno / che fé i Romani al mondo reverendi», Dante ne sottolinea la straordinaria novità:
Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l’anime conserte.E quel che mi convien ritrar testeso
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
Pd XIX,102,1-3,7-12
e sonar ne la voce e “io” e “mio”,
quand’era nel concetto e “noi” e “nostro”.
Dante “ha più speranza” di tutti perché ogni avvenimento o affetto o scienza o struttura, ogni cosa che sia degna di essere apprezzata o rimpianta, è vista da lui come passibile di un eterno riscatto e di un’eterna riconquista grazie all’unione del Corpo (mistico!) con il Capo, Gesù Cristo, inscindibilmente vero Dio e vero uomo, nell’unità della sua Persona divina, per mezzo del quale «il Padre si compiacque di riconciliare con sé tutto ciò che esiste sulla terra e nei cieli» (Col 1,19-20).
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